FELICE ANNO NUOVO!
venerdì 30 dicembre 2016
giovedì 22 dicembre 2016
domenica 11 dicembre 2016
FANTAVALTELLINA di Giuseppe Novellino
Nei primi giorni del giugno scorso,
Giuseppe Garibaldi è uscito dalla sua statua che dà il nome alla bella piazza
di cui tutti i sondriesi sono orgogliosi. E se ne è andato in giro per le vie
del centro, guardando le vetrine, passando attraverso i corpi della gente, in
una calda serata di inizio estate. Qualcuno l’ha visto, ovviamente, altrimenti
non sarei qui a parlarne. L’ectoplasma dello storico personaggio avrebbe fatto
anche una puntatina in banca, così, tanto per curiosare sui comportamenti
finanziari dell’attuale società. Lui, certo, di soldi non aveva bisogno. Poi è rientrato nella statua, dando, a
detta di qualcuno, appuntamento per il prossimo anno. Mi sono imbattuto nella notizia solo
qualche giorno fa, quando ho visto un servizio della Tele locale. Si
intervistavano tre esperti di parapsicologia, arrivati a Sondrio in veste di
acchiappa fantasmi (con tanto di camice bianco, dico sul serio), non solo con
l’intento di documentarsi sulla recente apparizione dell’Eroe dei Due Mondi, ma
anche con l’idea di verificare l’avvistamento, nei nostri boschi, di due gnomi
e di un unicorno. La Valtellina sarebbe dunque infestata da
fantasmi e da creature mitologiche. Dopo gli UFO della Valmalenco, assistiamo
ancora al verificarsi di fenomeni che più che estranei definirei stranianti.
Prima, con quegli incontri ravvicinati del solito tipo, eravamo piombati in un
film di Spielberg; oggi, invece, siamo in piena fantasy. Questa nostra Fantavaltellina mi lascia un
po’ stordito. Va bene, un po’ sono orgoglioso di sapere che la nostra città ha
un fantasma, e che razza di fantasma! Ma poi mi chiedo quale sia il significato
del propagarsi di simili dicerie. Non credo che il motivo sia quello di
distogliere l’attenzione da problemi più concreti e più gravi. Infatti, chi si
lascerebbe distrarre dall’idea che Giuseppe Garibaldi vada a fare un giretto
nella sede della Banca Popolare, oppure che un unicorno pascoli nei boschi già
pieni di cinghiali e di cervi? Come i dischi volanti della Val Malenco non sono
riusciti a scuoterci più di tanto, così questi spiritelli fuori luogo e fuori
tempo non possono esercitare un grande potere su di noi. Siamo nell’era del
computer, dello smartphone, della pley-station, del dolby stereo. Cosa volete
che possano fare degli gnomi, degli unicorni e dei fantasmi d’ottocentesca
provenienza, e per lo più “reali”. E meno che meno verrebbero impressionati i
bambini, i quali, vedendo il famoso cavallo monocornuto, scrollerebbero le
spalle e direbbero semplicemente: – Figo, è tale e quale a quello del mio
videogioco. La ragione, secondo me, va ritrovata nella
mente di tanti adulti che non sanno più leggere un buon romanzo di fantascienza
o una novella fantasy. Eppure di questo hanno legittimamente bisogno. I
tre acchiappa fantasmi di cui sopra forse lo sanno e magari lucrano proprio su
tale carenza.
martedì 29 novembre 2016
Il Guardiano della sabbia Antonio Ognibene
Il
primo uomo su Marte potresti essere tu.”
Geremia
Slasken faticò ad aprire le palpebre. Si stropicciò gli occhi, e con
l'unghia del mignolo tolse le secrezioni dagli angoli.
Si
mise a sedere sul letto e spense la suoneria melodica del vecchio smartphone.
Guardò
l’immagine di sfondo sul vetro crepato: una ragazza sorridente che abbracciava
un bambino dai boccoli castani.
Aiutandosi con le mani, mise le gambe fuori
dal letto.
Punto di arrivo: Marte, con biglietto di sola andata.
Geremia Slasken, sessantenne di Borgolupo ancora con un fisico da atleta, è
l’unico pensionato tra i cento aspiranti coloni selezionati in tutto il mondo,
per l'audace impresa di colonizzare il Pianeta Rosso. Lo ha saputo Lunedì
scorso, mentre andava a ritirare la pensione.
─
Un giorno che non dimenticherò mai ─ racconta al “Corriere Nazionale”.
─
Se me l’aspettavo? In realtà ero un po' scettico, all'inizio c’erano oltre
duecentomila candidati, gente quasi tutta diplomata o laureata. Alla fine siamo
passati in cento. Posso ormai dire di aver agguantato il mio sogno. Manca
l'ultima selezione. ─ ridacchia ─ Chi l'avrebbe mai detto che su Marte sarebbe
servito un faro.
Già,
perché Geremia ha un attestato di farista, conseguito nel lontano 1970. Prima
del pensionamento gestiva un faro della Marina Militare.
I
colori delle luci dell'alba marziana non avevano ancora la forza di entrare
dalle fessure dell'avvolgibile.
Ancora
nella penombra, l’uomo attraversò la stanza da letto strisciando i piedi fino
all'attaccapanni da cui prese un paio di jeans e una camicia bianca. Riusciva a
distinguerli solo strizzando gli occhi.
La grande ambizione di Geremia si chiama Mars Destination,
la missione multinazionale che ha l’obiettivo di creare una colonia umana
permanente di ventiquattro persone su Marte. Ma c'è un dettaglio da non
sottovalutare: non è contemplato il biglietto di ritorno.
─ Già, il viaggio prevede la sola andata.
E vabè.
─
Al momento mancano i finanziamenti e la tecnologia per il ritorno, ma non è
detto che tra una decina di anni le cose non si saranno evolute. Spero di
esserci ancora. ─ dice scherzando.
Entrò
in corridoio, poi in bagno.
Urinò
in un contenitore a tenuta stagna, rabboccandolo. Il congegno era collegato
alle tubazioni che terminavano in un dispositivo ATU-O2. Questa apparecchiatura
consentiva di trasformare le minzioni dentro un biogas, che serviva per farsi
docce calde e cucinare. I pannelli solari erano riservati soltanto per azionare
il faro e le strumentazioni della base. Era una procedura che lo faceva sempre
sorridere, perché pensava al problemino alla prostata.
Non hai paura di rimanere bloccato lassù?
─ Ci ho pensato spesso, sai? Ma la consapevolezza che qui
sulla Terra non ho più nessuno, mi ha spinto a prendere la decisione. Eppoi il
mio spirito di avventura ha fatto il resto.
─ Comunque saremo addestrati su come affrontare eventuali
crolli psicologici. Potranno capitare situazioni parecchio difficili, dovremo
essere pronti a coalizzarci per sopravvivere.
─ Mi aspettano un po' di anni di preparazione
intensiva, con prove fisiche, psicologiche e attitudinali, prima di partire con
lo scaglione iniziale di quattro astronauti nel 2025.
Sei
già così sicuro di far parte dei ventiquattro coloni?
─ Sì,
perché al momento siamo solo in due a possedere i requisiti per dirigere un
faro: io e il mio vice, che è più giovane. Lui però avrà altre mansioni, mi
sostituirà solo in caso di malattia o di... Mi tocco, ah,ah.
Girò
la maniglia della doccia, e aspettò che l’acqua diventasse calda.
Si
mise sotto il getto, esponendo il petto alla pioggia dei sottili e sprizzanti
rivoletti. La cabina si era riempita di un intenso odore di cloro.
Uscendo
lasciò una scia bagnata fino in cucina, dove, con gesti meccanici, mise su del
caffè d’orzo.
Si
accomodò a sedere a un anglo del tavolo, aspettando che la manopola del
tostapane avesse finito il giro.
Ma perché tutta questa voglia di lasciare la Terra?
─ Ripeto, sono un pensionato con lo spirito avventuriero.
Poi dopo la morte di mia figlia e del mio nipotino (In un incidente aereo tre
anni fa , ndr) ho passato momenti di terribile depressione ─ racconta ─ fino a
quando ho letto su Internet l'annuncio di Mars Destination. Vivere qui o su un
altro pianeta, per me è la stessa cosa.
─
Certo, il paesaggio sarà più monotono di quello terrestre, ─ continua ─ ma non
ho paura di annoiarmi. C’è un intero pianeta da scoprire. Come cantava Eugenio
Finardi: “Voglio un pianeta su cui ricominciare”.
Prese le fette di pane e ci spalmò sopra del burro.
Avevano il solito sapore di sempre. Provò a mandarle giù con un paio di sorsate
d’orzo, per dare un gusto diverso al boccone.
Guardò il calendario appeso al muro, per vedere quanto
mancava al prossimo approvvigionamento.
Tu
sarai l'eventuale addetto al faro della base, allora.
─
Esatto. Dovrò azionarlo quando ci saranno le tempeste di sabbia. In quel caso
agli esploratori non basteranno solo i sistemi digitali. Il mio compito sarà
proprio quello di dare loro un punto di riferimento per il rientro alla base.
─ Vedi, su Marte le tempeste di sabbia possono
estendersi su una piccola zona così come sull'intero pianeta. E sono in grado
di durare anche un mese. Li chiamano “dust devil”.
I
gradini scricchiolavano sotto i piedi dell'uomo, mentre saliva su per una rampa
circondata da una struttura incastellata in acciaio, fino alla stanza di
guardia. Con le mani e con i piedi si aggrappò a una scala a chiocciola che lo
portò a una botola che conduceva al faro.
Nel
locale c'era ancora quella nota profumata, fresca e rilassante di lavanda.
Pigiò
alcuni pulsanti su un pannello di controllo e spinse in avanti un paio di leve
che azionarono il meccanismo rotatorio del fanale a LED. Si assicurò che le
spie degli accumulatori fotovoltaici fossero accese.
Una
forma a spirale scura, si stava materializzando dalle parti di una rete di
canyon.
Geremia
si infilò la tuta spaziale e uscì fuori, appoggiando il ventre al parapetto.
Avvicinò il binocolo alla visiera: tempesta di sabbia in arrivo.
Con
gli occhi incollati sull'obiettivo, fece il giro della torretta. Ovunque
guardasse, nella visuale del binocolo c'era solo un oceano di sabbia rossa.
Se
le cose andranno secondo i tuoi piani, sarai un guardiano del faro a tempo
pieno. Un incarico di altissima responsabilità.
─
Beh, è proprio così. Ma mi dovrò occupare anche di un piccolo appezzamento di
terra, su cui coltivare un orto.
Diede
un'occhiata allo smartphone. Il countdown era quasi completato. La spedizione
sarebbe arrivata entro pochi minuti.
E se la missione dovesse saltare ?
─
Non salterà. Sono destinato a fare qualcosa di grande, lassù.
Rientrò
nel faro girando i maniglioni che sigillavano il portone di acciaio a tenuta
stagna.
Pressurizzò
la stanza e si tolse il casco, riponendolo nell'armadietto assieme alla tuta.
All'improvviso
si accese una spia rossa, seguita da un suono acuto. Le braccia di Geremia
ebbero un brusco sussulto.
Scese
in fretta la rampa di scale e andò verso l'ingresso. Nell'aria c'era ancora il
profumo dell'orzo e delle fette di pane tostato.
─
Sono già qui? Possibile? ─ si domandò ─ devono essere arrivati da Ovest.
─
Buongiorno. ─ disse una voce al videofono ─ Il vento è molto forte oggi.
Geremia
riconobbe uno dei medici della base.
─ Mi fa
entrare? ─ chiese con cortesia ─ Non vorrei essere spazzato via.
─
Certo, certo. ─ balbettò disorientato.
Il
guardiano azionò il dispositivo di momentanea depressurizzazione dal quadro di
controllo.
─
Scusi dottore, ma come riesce a starsene là fuori senza tuta? ─ chiese mentre
richiudeva la porta stagna dell'airlock.
L'uomo
sorrise.
─ Gli
androidi non hanno bisogno di tute spaziali. ─ disse strizzando l'occhio ─ E io
sono un androide, non ricorda?
─
Ah... certo, certo ─ balbettò ─ lei è
così reale che la scambio sempre per un... beh...
─ Un
umano? ─ disse ─ E invece sono un ammasso di ossa in plastica, sangue chimico e
tessuti artificiali.
─ Mi
scusi, non era mia intenzione... ─ disse
imbarazzato ─ Comunque è un AD 2.0 di ultimissima generazione. Un ottimo
modello.
─ Non
si preoccupi ─ disse, appoggiandogli una mano sulla spalla. ─ non mi sento
offeso.
─ E
gli altri? ─ chiese Geremia, cercando di cambiare discorso.
─ Gli
altri? Ah, già. Stanno parcheggiando il rover.
─
Parcheggiando? Dove?
─ In
garage.
Geremia
si grattò la nuca, manifestando uno stato di leggera confusione.
─
Boh?
─
Sono venuto a prenderle la pressione.
─ Ma
io sto benissimo.
─ Lo
so, ma fa parte della prassi, rammenta? Si stenda e mi dia il braccio, su.
Il medico applicò il bracciale dello
sfigmomanometro digitale all'uomo.
─
Com'è? ─ chiese Geremia.
─ Non
male. ─ disse, rimanendo attento nell'auscultare il battito cardiaco dallo
stetoscopio.
Il
medico rimise l'attrezzatura a posto e uscì salutando Geremia.
─
Bene, ci vediamo domattina.
─ A
domani. ─ contraccambiò il farista, allacciandosi il polsino della camicia.
L'uomo
in camice bianco attraversò il corridoio e si fermò davanti a una porta.
Bussò.
─
Avanti.
─
Buongiorno professore, ho qui la cartella clinica aggiornata del paziente arrivato
l'altro ieri.
Il
primario la prese in mano sorridendo.
─ Ah.
Quel tipo che si crede un guardiano del faro su Marte. Continui pure ad
assecondarlo.
venerdì 18 novembre 2016
TRIANGOLI di Giuseppe C. Budetta
Explorer VII rilevò gli
aspetti più salienti del pianeta T. Le foto pervenute in redazione permisero di
appurare i seguenti e peculiari aspetti. Le nubi non essere rigonfie sfere, le
montagne non coni, le costiere non simili a cerchiature. Arcipelaghi, isole e
continenti avevano forme omologhe a parallelepipedo triangolare, prive di
fratture, abissi e pericolose forre. Sul pianeta T, la natura era spigolosa e
multicolore, secondo poche, basilari regole morfometriche. Su T. ci sarebbe uno
stretto rapporto tra natura e geometria frattale, per cui oggetti e cose
animate ed inanimate sarebbero auto similari, in rapporti costanti, esprimibili
con numeri reali.
Tranne la sfericità dell’astro su T. tutto
sarebbe riportabile alla triangolarità. A detta, ci sarebbero due oceani e tre
continenti. Gli oceani sarebbero l’Atlantico ed il Pacifico e non il Pacifico,
Atlantico e l’Indiano come qui. Il primo avrebbe per base maggiore la riviera
africana e per apice l’istmo tra le Americhe. Il Pacifico avrebbe per base
l’Eurasia, tra la punta siberiana e quella indocinese con vertice tra le
Americhe, dalla parte opposta all’Atlantico. I tre continenti sarebbero
l’africano con base rivolta all’eurasica punta. L’Eurasia sarebbe divisa da una
bisettrice in due parti: la occidentale detta Europa e la zona orientale cinese
– siberiana - indocinese. L’americano continente sarebbe costituito da due
piastre continentali con la forma di triangoli ottusangoli, uniti ai vertici
apicali lungo lo stretto di Panama.
Ci sarebbero isole come l’Australia, il
Madagascar e, nell’emisfero settentrionale la Groenlandia di triangolare forma,
l’unica possibile nella planetaria geografia. Penisole, golfi, insenature ed
arcipelaghi sarebbero rigidamente triforcuti. Dei poli, il nord sarebbe
isoscele, scaleno il sud.
Monti e colline sarebbero per lo più
triangoli scaleni, differenti per altezza ed ampiezza di base. In inverno, i
vertici più elevati diverrebbero bianchi per la neve. Ammassi nuvolosi si
aggregherebbero in ottusangoli od acutangoli lattescenti, nell’azzurrità
plananti. Idem rocce, pietre, scogli e le scaglie del mare mosso. Le pianure
sarebbero triangoli a simmetria assiale con base sulla linea costiera e punta
incuneata tra contrapposte catene montagnose. I laghi azzurri, vari per
tonalità ed estensione, rientrerebbero nei parametri dell’unico insieme
euclideo, come la flora con alberi e fiori di morfologia standard a tre
spigoli. Tra la flora, i pini avrebbero una rigida configurazione conica, ma
con differente altezza tra albero ed albero. I vegetali non avrebbero tronco, o
gambo, o stelo e starebbero fissi a terra, come incollati per la base. Alberi
triangolari e verdi sarebbero diversi per obliquità di lato, altezza e tonalità.
Ci sarebbero boschi iridescenti, con variopinta flora a forma di equilateri,
d’isosceli, di scaleni, di rettangoli, acutangoli ed ottusangoli. In autunno,
l’area totale di molti alberi si scolorirebbe, o si riempirebbe di colori
accesi. I variopinti fiori avrebbero petali triangolari, differenti in
obliquità e foggia. Avrebbero ad isoscele il gambo sghembo con apice infisso a
terra. I funghi sarebbero ottusangoli scaleni. Velenosi sarebbero gli
equilateri.
La fauna di pesci, rettili, anfibi, uccelli
e di mammiferi inutile dirlo, sarebbe triangolare. Gli uccelli in volo
sembrerebbero aquiloni colorati. Alcuni pesci nuoterebbero con asse
perpendicolare al fondo marino, altri in orizzontale come mantidi. I rettili
sarebbero isosceli oblunghi e striscerebbero per una della duplice, equivalente
superficie. I cetacei nuoterebbero in orizzontale come sulla Terra. La vita sub
microscopica avrebbe in toto il tricuspidale aspetto: batteri, protozoi ciliati
ed infusori, miceti e saccaromiceti, virus virulenti e cellule degli organismi
superiori. Tutto su T darebbe 180° per somma dei tre angoli interni; l’area
risponderebbe alla formula generale della base per altezza e prodotto diviso
due.
In campo umano, ci sarebbero due razze: gli
acutangoli e gli ottusangoli. In questi due grandi insiemi della euclidea
geometria, si distinguerebbero popoli rettangolari, equilateri, isosceli e
scaleni. Nel vertice A, gli umani di T avrebbero bocca per il transito d’alimenti
ed aria. In B, ci sarebbe deflusso d’urina e spermatico se maschi o solo urina,
se femmine. L’accoppiamento sessuale avverrebbe per contatto tra i due vertici
B, il maschile e l’omologo femminile. In prossimità dell’angolo B, ci sarebbe
nelle femmine la zona uterina. Il
vertice C sarebbe il culo e servirebbe all’uopo per cacare.
Il dialogo tra triangoli umani avverrebbe
illuminando l’angolo buccale apicale. Luci di diversa durata e intensità di
voxel comporrebbero parole e frasi. L’intervallo tra emissioni luminose
corrisponderebbe a pause di silenzio. Su T. l’insieme dei triangoli equilateri
deterrebbe l’effettivo potere in base alle leggi della similitudine geometrica.
I matrimoni avverrebbero tra individui di similare geometria: equilateri con
equilateri, isosceli con isosceli e scaleni con scaleni.
Ammesse le coppie di differente altezza, ma
dello stesso insieme. Le più stabili sarebbero coppie di triangoli rettangoli
con eguale ipotenusa, sottomessi alla relativa legge pitagorica. Le coppie a
simmetria assiale, o centrale sarebbero compatibili nei limiti estremi.
I matrimoni a prova di boma sarebbero tra
equilateri ad angoli congruenti, a due a due proporzionali, o simili con lati
proporzionali ed opposti ad angoli isometrici, oppure con angoli isometrici
opposti a lati proporzionali. Essendoci la democrazia, ammessa sarebbe la
copula en passant tra triangoli dissimili: equilateri e scaleni, isosceli ed
equilateri, scaleni e isosceli. Questi tipi di accoppiamento sarebbero sterili
in base alle leggi geometriche che su T condizionerebbero la genetica. Su T.
divorzi e separazioni sarebbero numerosi tra coppie isoscele e scalene; le più
stabili quelle tra equilateri, pur se differenti in area, perimetro ed altezza.
Gli equilateri rettangolari avrebbero mente
quadrata, adatta per gli studi economici, la statistica e la matematica. Gl’isosceli
con spiccata altezza sarebbero atleti, ottimi nuotatori e acrobati. Gli scaleni
sarebbero temuti perché artisti, imprevedibili e creativi.
I geni avrebbero bisettrici perpendicolari
con rette secanti di lunghezza tra 5,2 e 5,3.
I parlamentari di T. eletti secondo la legge di Carnot, nell’emanare leggi, osserverebbero le regole fissate nei teoremi del coseno, della bisettrice semplice e della bisettrice all’angolo esterno a parallele rette. I popoli di T adorerebbero un Dio uno e trino, simboleggiato nella perfezione della equilatera triangolarità: al vertice ci sarebbe il Padre, alla base di destra il Figlio ed a sinistra dell’euclideo spazio lo Spirito Santo. Amen.
I parlamentari di T. eletti secondo la legge di Carnot, nell’emanare leggi, osserverebbero le regole fissate nei teoremi del coseno, della bisettrice semplice e della bisettrice all’angolo esterno a parallele rette. I popoli di T adorerebbero un Dio uno e trino, simboleggiato nella perfezione della equilatera triangolarità: al vertice ci sarebbe il Padre, alla base di destra il Figlio ed a sinistra dell’euclideo spazio lo Spirito Santo. Amen.
Il quoziente intellettivo QI dei triangoli
umanoidi sarebbe collegato alla morfometria e si otterrebbe moltiplicando
l’altezza per la distanza della base dal baricentro diviso tre, numero
perfetto. Si otterrebbe un range
oscillante tra 8 e 9. Negli animali domestici di T, sarebbe possibile ricavare
il QI con la stessa formula. Le scimmie avrebbero un Q.I. tra 5 e 6. Il
triangolo elefante avrebbe Q.I. tra 7 e 8, l’equino tra 4 e 5. Nessuna specie
eguaglierebbe l’umano QI.
Gli esseri animati si sposterebbero lungo la
loro base, strisciando su strette docciature. Queste strisce su cui deambulare
sarebbero state tracciate al suolo. Col progresso, sarebbero stati allestiti sottili
binari tra loro intrecciati e intersecati. Un umano di T avrebbe detto: è stato come mettere le scarpe. Per
evitare che i continenti si riempissero di binari, si sarebbe stabilito che il
percosso debba avvenire in determinate aree. Le rimanenti zone sarebbero state
riservate al verde. Uomini, cani, gatti, cavalli e selvaggina si sposterebbero,
scivolando con la rispettiva base rettilinea sui binari. Se uno esce fuori,
cade di lato, o s’incrina su un angolo, muore frantumandosi. Alcuni auspicavano
lo sfondamento del rigido spazio euclideo. Pur sperandoci, nessuno era riuscito
ad infrangerlo.
Da un punto di vista evolutivo, i triangoli
deriverebbero da rettangoli, o da quadrati per suddivisione lungo le diagonali.
Secondo altre teorie matematiche, i triangoli si sarebbero evoluti dalla
quadruplice frantumazione di rombi irregolari. Altri sarebbero del parere che
derivino, o da divisioni multiple di poligoni regolari o viceversa, per
riduzione graduale della lateralità degli stessi poligoni regolari. La tesi più
accreditata – confortata dal rinvenimento di fossili del Triassico - li
vorrebbe derivati da quadrilateri trapezoidi con angoli adiacenti supplementari
per incremento progressivo dell’altezza e la riduzione della minore base.
Dunque in epoche ancestrali, la geometria prevalente su T sarebbe stata la
trapezoidale, accresciutasi gradualmente fino a trasformarsi nella definitiva
triangolare. Ciò sarebbe avvenuto anche per flora, fauna, microbi e virus.
Tant’è.
Terrestri economisti affermano che questo
tipo di evoluzione sia erronea ed alla fine dannosa. Questi esperti sostengono
che non ci sia il bisogno d’incapsulare la gente nei rigidi schemi della
geometria euclidea. Conferendo il potere economico, politico e sociale a pochi eletti
il tutto fila liscio. Occorre che l’economia sia retta da leggi indeformabili
come binari. In questo modo, gl’individui vivono secondo schemi predeterminati,
illudendosi di essere liberi e felici, o quasi.
sabato 12 novembre 2016
FOTOGRAFIA TOTALE di Peppe Murro
-E' fatta !
John Eastman jr e Bill
Zuckerberg VII si volsero con un sorriso raggiante verso la folla impazzita di
giornalisti e fotografi. Si strinsero la mano e si concessero, come si suole,
alla pioggia dei flashes.
Poi John Eastman fece il
gesto di calmare la folla, si avvicinò al microfono e:
-Signore e Signori, sarò breve. Oggi, e lo dico con orgoglio e senza
presunzione, annunciamo un evento epocale nella storia dell'umanità. Sono qui
con l'amico Bill perché è grazie agli sforzi congiunti dei nostri due team che
abbiamo raggiunto un tale risultato. Io so dei tanti rumors che hanno preceduto
questo incontro, ma, credetemi, quanto sto per dirvi è ben al di là delle voci
e delle congetture.
Signori, abbiamo la macchina fotografica totale.
E dicendo così, fa un
plateale gesto di invito: entra una signorina elegante in tailleur scuro con un
vassoio coperto da un leggero panno giallo.
Si avvicina a Eastman e
toglie il panno.
Mormorio di sorpresa,
sembrava non ci fosse nulla sotto; a malapena quelli in prima fila riuscirono a
vedere dei fili sottilissimi calarsi dal ripiano.
E mentre montava il rumore dello sconcerto,
alle spalle dei tre, sul palco, si vide proiettata un'enorme immagine di due
dita che tenevano insieme una sottilissima lente con dei filini penzolanti.
-Ecco - riprese
Eastman - state osservando la macchina
fotografica del futuro, anzi, quella del sempre.
Fu interrotto da un brusio
che divenne presto clamore e calca di domande.
John Eastman guardò Bill
serafico e sorrise:
-Calma, calma, signori; vi spiegherò ogni cosa. Quella che vedete, o che
forse non vedete, è la cosa di cui vi parlavo.
A prima vista sembra una piccolissima lente; vi dico subito che ha appena
il diametro di una pupilla umana; è sottile 5 micron e si applica come una
comune lente a contatto. La novità sta nelle caratteristiche che vi elencherò
in breve e con un linguaggio comprensibile, prima di dare la parola all'amico
Bill:
Sensore da 180 MB; Velocità di scatto da 1h a 1/5000 di sec; Zomm da 7 a
300mm; Autoflah disinseribile; Luminosità costante di 0,5, cioé due volte la
capacità visiva dell'occhio umano...
Fu interrotto da una marea
inarrestabile di voci
-Signor Eastman, Sig. Eastman (le domande si
accavallavano) lei sta dicendo che questa
sua lente ha una capacità di definizione che non riusciamo a immaginare, una
velocità di scatto impensabile, una possibilità di visione doppia di quella
umana e che avvivina di circa sei volte ciò che normalmente vediamo ?
-Non solo, sorrise John, ma
ribadisco che questa macchina fotografica aumenta a dismisura la capacità umana
di vedere oggetti lontani od al buio, di fermare il movimento più veloce e con
una discriminazione dei particolari che lei neppure immagina.
-Sig. Eastman, Signor Eastman...
-Vi prego, dopo, dopo avrete dai nostri tecnici tutti i chiarimenti.
Ora calma, per favore: l'amico Bill ha qualcosa di importante da
comunicarvi.
Si fece silenzio a fatica.
Bill Zuckergerg VII
si avvicinò al microfono, si schiarì la voce e:
-Mi sarebbe piaciuto iniziare
raccontandovi il sogno del mio antenato, anzi, dei miei antenati Gates e
Zuckerberg, di cui indegnamente porto nome e cognome,quello di una connesione
permantente planetaria, ma voglio essere anch'io breve: quei filini che vedete
uscire dalla "lente" sono degli elettrodi che vanno collegati
direttamente alla rete neurale del soggetto umano.
Ci fu un silenzio
frastornante: penne alzate a mezz'aria, bocche spalancate, qualche sguardo
sperduto. Anche nelle ultime file.
Bill continuò con calma:
-La "lente" va poggiata davanti alla pupilla come una comune
lente a contatto, ma i fili sono collegati al nervo ottico e da lì ad ognuno
dei due lobi del cervello.
La vera novità, infatti, della nostra macchina fotografica non è nelle sue
pur notevolissime doti tecniche, ma consiste nel fatto che essa può essere comandata direttamente dalla mente del soggetto.
Invece che schiacciare un pulsante
col dito, basta pensare di volere una foto e quella è fatta !
E non solo! si può desiderare di condividerla con qualcuno e con una
semplice app di default si è direttamente e permanentemente connessi con tutti.
E ancora, Signori, se si desidera farsi un selfie è possibilissimo; anzi
possiamo decidere di autofotografarci alle Bahamas o sull'Everest o senza
rughe, come comunque ci piacciamo e come desideriamo che gli altri ci vedano.
Insomma, cari Signori giornalisti, questa macchina fotografica non solo è
quanto di più potente si possa avere, ma anche quanto di più desiderabile ci
sia.
E solo per la nostra gioia di condividere con gli altri tutte le nostra
emozioni. Sempre connessi e sempre come ci vogliamo...
Nel silenzio sbigottito ed
ovattato dei presenti si levò dal fondo una voce occhialuta e stridula:
- Scusi...
-Dica, fece Bill condiscendente.
-Scusi, sono il corrispondente del giornale locale di Las Fuentes, New
Mexico. Avrei una domanda; se si possono fotografare i desideri, allora si
possono fotografare anche i propri sogni ?
-Penso proprio di si - fece Bill schiarendosi la gola e
guardandosi intorno con un misto di soddisfazione ed apprensione.
-E come si fa- continuò il piccolo giornalista occhialuto- a non fotografare i propri incubi ?
mercoledì 9 novembre 2016
GENESI di Teresa Regna
Era
una radiosa giornata, assolata ma non eccessivamente calda poiché una brezza
leggera soffiava verso est. Un pensiero illegale si insinuò, lieve come una
piuma, nella mente di Samkel: e se non fosse andato a scuola? Era sufficiente
svoltare a destra, in direzione del parco, invece che a sinistra, e sperare che
nessun adulto se ne accorgesse.
Mentre il bambino era
immerso in questa riflessione, Xelin, un compagno di classe, gli si avvicinò
senza far rumore. “Cosa hai intenzione di fare?”, chiese, con voce
sinistramente melliflua.
“Vado a scuola, proprio
come te”, rispose Samkel, timoroso che il pensiero illegale che l’aveva
sfiorato potesse essersi riflesso nel suo sguardo. Xelin non avrebbe esitato un
attimo a denunciarlo all’insegnante, ne era certo. Si incamminò a fianco del
compagno, con gli occhi bassi.
“Oggi è un gran giorno”,
affermò Xelin, riprendendo il cammino interrotto. “Abbiamo la prima lezione di
religione”.
*****
L’uomo
rabbrividì. Era nudo, disteso su un letto situato all’interno di un contenitore
cilindrico. La penombra in cui era immerso si dissipò a poco a poco, e anche la
sua mente riprese pian piano a schiarirsi.
Edward Williams, questo
era il suo nome. Era stato ibernato... quanto tempo prima? Non lo ricordava.
Perché non c’era nessuno ad accoglierlo? Dov’erano gli abiti?
Lentamente, cominciò a
muoversi. Trascorsero alcuni minuti prima che riuscisse a riacquistare la
completa padronanza sul proprio corpo, e a ricordare il motivo per cui aveva
deciso di farsi ibernare. Gli abiti erano accanto a lui, in un contenitore
cubico.
*****
L’insegnante
scoccò a Samkel un’occhiata severa, ed ottenne l’effetto desiderato: lo sguardo
dell’alunno si distolse dalla vetrata d’ingresso, posandosi sul libro aperto.
Quando si insegna in una classe di trentacinque bambini non è possibile fare
alcuna concessione; bisogna mantenere la disciplina anche a costo di sembrare
insopportabili.
Il libro si chiamava
Genesi o Libro delle Leggende. Samkel lo riteneva poco interessante: conosceva
già da tempo il suo contenuto. Ogni bambino della classe aveva udito quelle
storie almeno un centinaio di volte, raccontate dai genitori anziani oppure
dagli uguali di qualche anno più grandi.
In
principio era il Caos. Poi Adev, genitore di tutti i viventi, decise che era
tempo di dare una forma al Caos. Pertanto creò il Mondo, il Cielo, il Sole, le
Stelle e i Pianeti. Generò infine tutto ciò che si trova sul Mondo, incluso
l’Uomo, al quale assegnò il compito di popolare il pianeta...
Un
raggio di sole colpì il banco di Samkel. Che peccato dover restare al chiuso, a
leggere quelle vecchie storie noiose, pensò il bambino. Staccò gli occhi dal
libro, e cominciò a seguire il corso delle sue riflessioni. Per sua fortuna,
l’insegnante non se ne accorse.
I
capelli erano cresciuti, sia pure a ritmo ridotto, durante il periodo di
ibernazione, e ora si ostinavano a ricadere negli occhi di Ed. L’uomo li ravviò
con un gesto impaziente mentre si allontanava dalla costruzione che l’aveva
ospitato per... quanti anni? La memoria continuava a giocargli dei brutti
scherzi, dopo il risveglio.
In
cuor suo sperava di non incontrare nessuno finché non fosse riuscito a
stabilire, con una certa approssimazione, in quale epoca era finito e,
soprattutto, che tipo di persone popolassero la Terra. Non erano mai stati
troppo amichevoli con gli stranieri, i terrestri. E lui, in un’epoca posteriore
alla sua, era uno straniero.
Cominciò
ad osservare le costruzioni che lo circondavano: avevano una forma familiare,
ma parevano fatte interamente di vetro, o di un materiale con le stesse
proprietà. A quell’ora tutti gli abitanti dovevano essere al lavoro, perché non
si scorgeva anima viva. Cosa era accaduto mentre lui era ibernato? La curiosità
lo divorava: aveva dormito per tanto tempo che gli pareva di essere un neonato
appena uscito dall’utero materno. Avvertiva un bisogno quasi fisiologico di
scoprire il mondo.
Samkel
sbucò, all’improvviso, da una stradina laterale. Preso alla sprovvista, Ed non
fece in tempo a nascondersi. Quello che aveva di fronte sembrava un bambino del
tutto normale, e la sua espressione era così dolce che l’uomo ne fu subito
conquistato.
In
una lingua tutto sommato comprensibile, anche se leggermente diversa da quella
adoperata all’epoca di Ed, Samkel chiese “Chi sei?”. Lo scrutò con attenzione
per qualche istante, poi aggiunse “Conosco tutti qui in città, eppure non ti ho
mai visto prima”.
“Sono
nuovo di qui”, rispose l’uomo, dopo aver tirato un sospiro di sollievo all’idea
di non avere alcun problema di comunicazione. “Potresti dirmi dove mi trovo?”.
Il
bambino sembrava sbigottito da quella semplice richiesta. Siccome, però,
sarebbe stato scortese evitare di rispondere ad un adulto, spiegò “Siamo a
Nakaliss. Non conosci la capitale di Mondo?”. Continuò a scrutarlo con sguardo
indagatore, e aggiunse “I tuoi abiti sono strani, e non somigli agli altri
adulti. Perché non mi dici chi sei?”.
Ed
non ritenne opportuno fornire quelle spiegazioni ad un bambino. “Dove posso
trovare un uomo autorevole?”, domandò ancora. Il suo tono tradiva una certa
esitazione, che faceva il paio con l’accento inequivocabilmente straniero.
“Non
capisco perché usi le parole della Genesi”, sbottò Samkel, sempre più
sbalordito. “Io sono un bambino, tu sei un adulto. Uomo siamo tutti noi”.
Fu
Ed a stupirsi, questa volta: nel futuro non adoperavano il termine uomo per
riferirsi ad un individuo? Tentò ancora. “Chi è il capo di questa città?”.
“Non
conosci nemmeno il nome del Sacerdote Massimo?”. Il bambino cominciava a
sospettare che l’adulto provenisse da un altro pianeta. “Ti porterò da Kantel”,
affermò, infine. “Chiederai al Sommo quello che vuoi sapere”. La decisione
appena presa lo fece sentire molto saggio.
*****
A
giudicare dalla tuta color porpora che indossava, Kantel doveva essere non solo
il capo della città, ma dell’intero pianeta. Una sola volta in vita sua Ed
aveva visto un altro abito di quel colore, addosso ad una spogliarellista.
L’espressione
del Sommo era indecifrabile. Non sarebbe stato facile spiegare cosa ci faceva
lì un uomo del ventunesimo secolo a quell’individuo che pareva la quintessenza
dell’impassibilità.
“Buongiorno”,
lo salutò, tentando di imprimere alla voce un tono cordiale.
“Pace
a te, straniero”, replicò una voce dal timbro femmineo.
In
un lampo, Ed capì. Impiegò una manciata di secondi a riacquistare il controllo
di sé. Mentre riordinava le idee, replicò “Pace anche a te, Sommo”. C’erano un
paio di particolari che ancora gli sfuggivano.
Poco
dopo la sua ibernazione, doveva essere scoppiato il temuto conflitto nucleare.
La terra si era spopolata, ma la sua creatura aveva trovato l’habitat adatto
per riprodursi e prosperare. Nel volgere di poche generazioni, i suoi
discendenti avevano riempito il pianeta.
Adev,
probabilmente, aveva raccontato ai figli e ai nipoti la sua storia, ma poi essa
era andata perduta col passare degli anni. Oppure lo stesso Adev aveva
preferito dimenticare che un tempo c’erano stati uomini e donne, e che lui/lei
era il frutto di una deliberata mutazione genetica operata con il suo consenso
dal professor Edward Williams.
D’altro
canto, ogni popolo si crea il dio che preferisce. E forse un dio umano non era
abbastanza allettante per i nuovi terrestri.
Non
avrebbe mai immaginato, però, che dalla sua creatura, Adev, sarebbero nati dei
fanatici religiosi tanto intolleranti da far invidia alla Santa Inquisizione.
Perché si era ostinato a voler difendere la verità?
Era
ormai giunto al termine della sua esistenza: all’alba lo avrebbero impiccato
per eresia. Sarebbe stato giustiziato dai pronipoti dell’androgino che aveva
creato allo scopo di rendere migliore l’umanità.
Chissà
perché, aveva una gran voglia di ridere.
domenica 6 novembre 2016
CASCHETTO CERCASI di Frank Bernardi
Durò assai poco la
piena libertà di noi semi - umani, oppure disumani o mezzi - umani o come ci
vollero chiamare nel passato e come non ci avrebbero più dovuto chiamare
nell'oggi. Solo che, come ho appena detto, tale libertà o senso di libertà non
ebbe poi molte occasioni per manifestarsi.
Tutto ebbe inizio tanto
tempo fa, come si legge nell'esordio di tanti racconti e raccontini. Long time
ago... Non avemmo genitori, non eravamo figli di discendenza alcuna, visto che
eravamo nati artificialmente con qualcosa di umano e altre cose artificiali,
senza le quali non saremmo neanche vissuti, financo nemmeno concepiti. Eppure
per disgrazia nostra e solo nostra ci concepirono e ci buttarono sul mercato,
sulla terra, nel mondo, in cerca di occupazione. Anzi, furono "loro",
gli stramaledetti "loro" a darci qualche occupazione da schiavi,
servi, gendarmi, cavie, soldati. E via con la lista di impieghi da emarginati
in cerca di riscatto che tale riscatto mai troveranno perché è ab origine che
la tara si annida in noi. E in noi si annida poiché noi tutti fummo creati da creatori
umani per ubbidire ai creatori nostri.
Gli inizi? Ci vuole
poca immaginazione a concepirli.
I primi pezzi
sfornati da incerti laboratori diretti da altrettanto incerte mani erano mostri
mezzi macchina e mezzo uomo o mezza donna. Parti artificiali in rilievo palese,
occhi finti, oppure occhi veri e braccia finte, gambe di metallo, unghie di
plastica e un cervello sviluppato a forza di chip infilati in serie nelle
meningi. Eravamo i mostri del mondo, bastava uno straccio di embrione e qualche
seme di metallo autosviluppantesi perché la parte artificiale crescesse
lasciando libera quella naturale di svilupparsi a sua volta. Ma come si
sviluppava la parte naturale? Codesta parte, a dire il vero, si sarebbe voluta
sviluppare secondo indicazioni del dna originario, ma trovava ostacolo nello
sviluppo del dna artificiale, un misto di organico e di metallico. Le due zone,
mai fuse, mai entrate in comunione, cominciarono a urtarsi e confliggere l'una
con l'altra fino, appunto, a degli esiti clamorosamente disgraziati, che
seminarono il terrore per tutto il mondo, dopo che molti di noi, ancora in una
fase di sviluppo iniziale, da non rivelare, riuscirono ad evadere da due o tre
laboratori lager e gironzolare liberamente, senza nulla fare però, non
uccidendo nessuno, anche se ce ne sarebbe stato ampio motivo, non fosse che per
esigere vendetta da coloro che ci avevano fatto nascere e ci avevano
scaraventato in quell'inferno. Bastarono alcune foto fatte girare per il web
(ovviamente tutti sapete cosa sia) e l'esistenza di tali laboratori fu resa
nota con ripercussioni immaginabili. I nostri governanti decisero dunque di
chiuderla con quel filone e misero i sigilli agli esperimenti.
Per finta.
Nei parlamenti si
moltiplicarono le petizioni e gli interventi affinché ogni cosa fosse portata
alla luce del sole, affinché fosse fatta chiarezza piena su quelli che si
potevano definire gli sviluppi dell'umanità tutta. "Non vogliamo morire
robot" fu il grido che percorse il globo da un angolo all'altro. Slogan
errato, poiché quello giusto sarebbe dovuto essere: "Non vogliamo nascere
robot". Robot, infatti, si nasceva. Un po' di materiale d'embrione, tanto
per avere due occhi, due mani e due gambe, tanto per stare in piedi. E poi la
parte artificiale, quella che determinava impulsi e ragionamenti. Se poi si
voleva tentare la sorte, si sarebbero potuti programmare organi misti, natural
- meccanici. Braccia robuste ma metalliche, una super vista (con occhi di tipi
periscopico, terrificanti, inammissibili). O super denti, con una dentatura da
squalo, rilucente metallo, capace di frantumare sassi e ferro (con adeguato
sistema digerente artificiale e tubo di espulsione a corredo di tutto questo).
Insomma, si poteva variare a seconda delle esigenze. Se servivano cinquecento
operai schiavizzati, ecco che si potevano commissionare alle ditte
specializzate. Se occorreva un esercito di netturbini, ecco l'esercito, almeno
su carta. Dico "su carta" perché, dopo i primi esperimenti dall'esito
mostruoso e la diffusione dei medesimi esiti presso media e opinione pubblica,
si mise uno stop a sperimentazione e eventuali commesse.
Per finta, però.
Perché ai governi non
conveniva affatto buttare via l'occasione, nossignore. Così in segretissimi
laboratori statali, sorvegliatissimi per evitare brutte sorprese come quelle
che c'erano già state, iniziò una sorta di count down per creare l'uomo del
futuro, o la donna del futuro: esternamente identici agli esseri umani
circolanti nati da donna, ma con qualcosa in più, vale a dire un micro chip
talmente chip da essere non rilevabile. Fummo creati e messi su piazza all'età
di qualche mese, fumo dati in adozione, andammo a scuola, alle elementari e poi
alle superiori. E poi tutto il resto. Ci fidanzammo, ci sposammo ma poi si
scoprì che eravamo sterili. Per molte coppie eterosessuali questo fu un dramma,
un po' meno lo fu per le coppie omosessuali, meno condizionate dall'aspettativa
di avere un figlio in maniera naturale. Ma comunque sempre di dramma si trattò.
Il dramma aumentò di estensione. Molte coppie al mondo si rivelarono sterili. I
tassi di infertilità furono alti. Si diede la colpa ora a questa cosa, ora a
quest'altra, le solite ragioni che si avanzano quando si è nell'incertezza. La
risposta vera alla domanda era la seguente: troppi esseri metà artificiali metà
naturali erano stati messi su piazza. Già, ma quanti furono? Milioni? Quanti
milioni? Tanti quanti, per esempio, gli esemplari di computer portatili venduti
(intendo i famosi computer da tasca che sostituirono gli arcaici iPad o come si
chiamavano cent'anni fa...)? Gli stessi creatori di noi mezzi umani e mezzi no,
gli stessi che ci avevano fabbricato, avevano perso il conto.
A meno che...
A meno che noi, mezzi
e mezzi, non avessimo trovato un modo per riprodurci. Con quale risultato?
Nessuno avrebbe potuto prevederlo. Quello di creare una nuova razza dominante?
Noi, lo dico subito, non eravamo consapevoli della nostra diversità. No, non lo
eravamo. Fino ad un certo punto.
Fino a che non entrai
in contatto con certa gente che mi fece capire che io, proprio io, ero un mix
di roba, un mix di robaccia. Non ero nato da donna, ma in laboratorio. Troppi,
al mondo, erano nati in laboratorio. Nel nostro cranio era impiantato un micro
chip, assi micro, non rilevabile. Dovevamo estrarlo. Ma come? Non c'era il rischio
di morire? E poi, se nemmeno si poteva rilevare...
Sì, lo si poteva
rilevare ma non era cosa immediata.
E cosa avvenne? Come
si conclude la storia?
Mentre noi prendevamo
coscienza del nostro stato, anche i governi, i creatori, prendevano coscienza che
noi stavamo prendendo coscienza.
E forse nei governi
già lavoravano, erano presenti, esseri artificiali? E forse già gli artificiali
potevano riprodursi? I governi dovevano intervenire.
Fu inviato un segnale
universale che avrebbe dovuto raggiungere il micro micro chip impiantato in noi
al fine di ridurci all'obbedienza più assoluta, senza che dall'esterno si
vedesse nulla. E qui finisce per il momento la storia. Coi governi che mandano
impulsi e noi che giriamo dalla mattina alla sera con un casco di metallo per
impedire che l'ordine wireless dei governi ci raggiunga. Funzionerà, non
funzionerà? Chi lo sa. Anche perché non si capisce chi sia artificiale e chi
non lo sia. Tutti vogliono il caschetto, che ormai non si trova più neanche al
mercato nero. Ecco come va il mondo oggi.
venerdì 4 novembre 2016
UNA PIACEVOLE SORPRESA di Paolo Secondini
Il
sergente maggiore Eric Dona stringeva nel pugno il calcio della sua pistola.
Era pronto a sparare all’alieno che a piccoli passi avanzava verso di lui per
divorarlo. Molti suoi commilitoni erano stati orribilmente sbranati e mangiati
da simili mostri.
Quale ne
fosse il vero aspetto, il sergente maggiore lo ignorava, poiché lo cambiavano
continuamente a seconda delle circostanze.
La loro
capacità di trasformazione era sorprendente, come quella di penetrare per via
telepatica nella mente di chiunque e carpirne pensieri, ricordi, immagini.
L’alieno –
che ora avanzava verso di lui – aveva assunto l’aspetto di Muryel, la giovane
moglie che Eric aveva lasciato su Terra, distante da Holigon, il pianeta su cui
si trovava, centinaia d’anni luce.
Il
sergente maggiore non si sarebbe lasciato ingannare: sapeva perfettamente chi
avesse dinanzi e come affrontarlo.
Tuttavia
esitava a sparare… ma proprio quando stava per premere il grilletto, si bloccò.
L’holigoniano
aveva iniziato a parlare: la sua voce era identica a quella di Muryel.
«Sono
tanto felice, amore, di essere qui. Ormai disperavo di rivederti, dopo tutti
quest’anni di lontananza.»
«Chi… chi
sei?» balbettò, incredulo, il sergente maggiore.
«Ma sono
tua moglie! Non mi riconosci? Vieni tra le mie braccia, tesoro! Non puoi
immaginare quant’abbia sofferto per la tua mancanza. Oh, ti desidero tanto!
Metti via quell’orribile arma. Mi fai paura. Che cos’hai da temere?»
Eric Dona
indietreggiò di qualche passo, la pistola sempre nel pugno e puntata contro
l’alieno.
Ripeté,
debolmente:
«Chi sei?»
«Sono io,
Muryel: la tua dolce, piccola Muryel. Ricordi? Mi chiamavi proprio così...
Quanti anni sono passati da quando sei partito? Cinque, quasi sei!...
Avvicinati dunque. Perché indugi? Mi sei tanto mancato, tesoro! Mi mancano
molto i tuoi baci, le tue carezze, le tue parole affettuose. Oh, sapessi!... Un
tempo mi amavi immensamente, con tutto te stesso. Non vorrei che per colpa
della lontananza fosse scemato il tuo amore per me. No, non credo! Sono sicura
che ancora mi ami, come io amo te… Su, avanti, che aspetti? Abbracciami,
baciami, stringimi.»
Innamorato
più che mai, il sergente maggiore abbassò la sua arma e corse dalla sua dolce, piccola Muryel. Ma nell’istante in cui questa stava per cingerlo
con le sue braccia, egli alzò di nuovo la pistola e fece fuoco: una, due, tre
volte…
Con un
grido straziante l’alieno cadde pesantemente a terra e, dopo un sussulto,
rimase immobile.
Il
sergente maggiore attese che le fattezze di Muryel svanissero, per lasciare il
posto a quelle reali dell’holigoniano, ma ciò non avvenne.
Allora
sgranò gli occhi e sentì il respiro mancargli all’improvviso, mentre un freddo
sudore gli imperlava la fronte, gli scorreva lungo la schiena.
«Ma… che
succede?» balbettò. «Ora che è morto, la sua mente non può controllare la forma
del suo corpo.»
Si guardò
per un attimo intorno, come a cercare qualcuno cui domandare spiegazioni.
Poi tornò
a fissare, ai suoi piedi, il corpo esanime di… Muryel.
Per poco
non impazzì quando, più tardi, egli apprese che il Distretto Spaziale di
Holigon aveva segretamente invitato sul pianeta, per un breve periodo di
soggiorno, un famigliare di ogni soldato.
Doveva
essere, per ciascuno di loro, una piacevole sorpresa.
mercoledì 2 novembre 2016
INTELLIGENZA NEL COSMO di Peppe Murro
Aveva percorso tutta la
galassia alla ricerca di specie intelligenti.
Il viaggio era stato lungo
e penoso: qua e là forme primitive di vita, ogni tanto esseri strani che
evolvevano in atmosfere di ammoniaca e metano, ma niente che denunciasse
intelligenza e men che mai tecnologia.
Piuttosto annoiato e
scoraggiato -o uno più dell'altro- era giunto in prossimità di un sistema
stellare marginale dove ruotavano ordinati diversi pianeti.
"Sarà come le altre volte", pensò, e gli venne voglia
di passare oltre, ma l'innata onestà della sua specie e il severo addestramento
militare glielo proibivano.
Attivò allora i sensori
dell'astronave per scandagliare quel sistema: nella fascia esterna dei pianeti
solo silenzio, ma nella fascia interna un pianeta bluastro fece accendere
diverse spie di possibilità. Fu quasi preso da fervore ed in fretta approntò
con cura gli apparati di ricezione.
Scoprì che quel pianeta era
una selva di onde radio e di segnali elettromagnetici: "E' fatta, qui c'è intelligenza",
pensò con soddisfazione ed ansia mentre gli arrivavano i primi segnali:
- XK NN TI KPSCO ?
- CMQ LA KS + BLL 6 T
- WEE KE F?
Non capì quel linguaggio
nonostante il traduttore universale.
Cercò allora l'aiuto del
computer di bordo, ma neanche da quello giunsero risposte.
Perplesso, si sorprese a
tamburellare le sue tredici dita sulla poltrona, si grattò la testa col secondo
braccio di destra mentre col primo si strofinava pensoso uno dei suoi tre nasi.
Rifece di nuovo la procedura di ascolto:
ricevere filtrare decodificare...e di nuovo quella pletora marasmatica di
messaggi:
- DV SL DRT KE 6 1 MRD -XK
NN M DC TVB ?
-MA KE KXX DC ! CRT KE
TVB !
- N T CRE
MA SI TVB
- = TVB.....
Non riusciva a capire,
tutto gli sembrava un rumore senza senso..."o forse - pensò con un brivido- era
un codice di intelligenze superiori e
mai conosciute, forse anche pericolose"; ma per senso del dovere
registrò tutto, dicendo che magari al suo ritorno lo avrebbero preso in giro
per la sua sciocca pignoleria.
Riprovò ancora a decifrare
quel linguaggio...niente, solo un ronzio inintellegibile.
Rifletté solo un attimo,
poi si scosse, concludendo, fra contarietà e costernazione, che forse la tecnologia era il retaggio di una civiltà passata, visto che al
presente non v'erano segni palesi di intelligenza. "Sempre così, anche in quel
pianetino della cerchia interna,come le
altre volte, non c'è intelligenza".
Guardò dall'oblò la
bellezza del pianeta che si avvicinava, poi, in fretta, con un po' di rabbia ed una certa amarezza,
spinse al massimo i motori dell'astronave che fece una rapida virata vicino a
quello strano pianeta con gli anelli e sparì nella notte cosmica.
lunedì 31 ottobre 2016
LA VENDETTA di Fabio Calabrese
Il deserto al tramonto
era uno spettacolo straordinario: gli ultimi raggi del sole traevano dalle
sabbie e dalle rocce tutte le tonalità degli ocra e dei rossi, mentre nel cielo
che imbruniva rapidamente si intuivano già le prime stelle.
L'uomo appoggiato al
parapetto della vecchia torre si guardava intorno con espressione estatica, in
quel momento si sentiva un uomo felice.
Non riusciva ancora a
credere alla fortuna che aveva avuto. Lui era un italiano, uno scrittore, uno
dei pochi che erano riusciti a trarre consistenti soddisfazioni da un mercato
avaro come era quello della fantascienza in Italia per gli autori indigeni. Un
paio di suoi romanzi erano stati pubblicati da una grossa casa editrice e
avevano ottenuto un successo inaspettato, erano stati tradotti all'estero, e
lui si era trovato quasi di colpo a essere qualcuno nell'empireo
fantascientifico.
Poi era successo che
degli amici americani conosciuti a una convention, una di quelle amicizie nate
ai margini di simili manifestazioni, passando una nottata a scolare birra
parlando di autori, di astronavi e di mondi esotici, lo avevano invitato a
trascorrere quella vacanza dalle loro parti, nel Nevada.
Quel giorno, avevano
fatto un'escursione nel deserto. Stavano rientrando a bordo del loro
fuoristrada, perché era ormai sera e il crepuscolo si avvicinava, quando lui
aveva scorto quella vecchia torre che sorgeva isolata in mezzo al nulla, e
aveva insistito per dare un'occhiata da vicino.
Si trattava
probabilmente di una costruzione dell'epoca spagnola sfuggita all'incuria del
tempo. Forse aveva fatto parte di un fortilizio, o magari era stata il
campanile di una chiesa, difficile da dire quando il resto dell'edificio o
degli edifici di cui aveva fatto parte era scomparso, sgretolato o inghiottito
dalla sabbia.
La torre stessa era un
cilindro di antichi mattoni sgretolati e mal connessi, con una buia apertura
alla base da cui si dipartiva una scala a chiocciola che si inerpicava nella
penombra, e che si intravedeva appena, e doveva portare alla sommità della
torre, o di ciò che ne rimaneva, poiché essa poteva benissimo essere stato più
alta in passato, due o tre piani più sopra.
Lui aveva insistito per
andare a dare un'occhiata, anche se i suoi ospiti l'avevano vivamente
sconsigliato.
“E' ormai quasi buio”,
avevano detto.
“Ci metterò poco”, aveva
replicato lui, “un paio di minuti. Voglio solo arrivare là in cima per
togliermi la curiosità”.
Si era inerpicato su per
quegli scalini malagevoli quasi invisibili nell'oscurità, tenendosi quanto più
possibile schiacciato contro il muro sconnesso per non mettere un piede in
fallo, era incredibile quanto l'interno della torre fosse scuro e caldo, afoso;
le vecchie pietre dovevano aver assorbito tutto il calore della giornata.
Quando fu di nuovo
all'aperto trovandosi sul piano superiore della torre, provò una sensazione di
sollievo.
Tuttavia, lo spettacolo
del deserto all'imbrunire valeva ampiamente la pena di quel piccolo sforzo.
Non occorreva nemmeno un
grosso sforzo di fantasia per immaginare...
Dario Tonani, appoggiato
al parapetto della torre immaginò fin troppo facilmente che quel deserto fosse
il luogo che la sua immaginazione aveva costruito, Mondo9, benché potesse
essere ugualmente bene Arrakis, Dune o il Marte di Ray Bradbury, ma la sua
mente andava in una precisa direzione, quello ERA Mondo9. A un certo punto, la
percezione era così netta che alzò la testa fissando lo sguardo nel crepuscolo
incombente per intravvedere il volo di un'alaquadra.
All'improvviso, provò
una sensazione di freddo assolutamente incongrua. Possibile? Il parapetto su
cui si era poggiato non sembrava più fatto di pietra ma di metallo. Non ebbe il
tempo di stupirsene, perché un fruscio alle sue spalle lo fece voltare.
Non aveva mai visto con
gli occhi l'essere che stava avanzando verso di lui, ma non avrebbe potuto
avere dubbi sulla sua natura, perché l'aveva visualizzato molte volte con la
mente in tutti i particolari: quella creatura che sembrava fatta di ottone
eppure si muoveva con la fluidità di un essere vivente, quell'umanoide
metallico nel cui viso calvo le orbite erano pozzi di oscurità profonda, eppure
sembrava vedere o percepire benissimo la sua presenza con sensi sconosciuti,
era fuori di dubbio un mechardionico, uno strappacuori!
Reprimendo un grido strozzato,
Dario Tonani arretrò, poi si diede alla fuga, una fuga assurda, senza speranza
lungo il perimetro circolare della sommità della torre. Dov'era la botola che
portava alla scala a chiocciola e ai piani sottostanti? Possibile che non
riuscisse più a trovarla?
Il mechardionico era
ormai vicinissimo, l'aveva costretto in un angolo. Dario Tonani arretrò ancora
quanto gli era possibile. Il parapetto di mattoni sconnessi della vecchia torre
cedette all'improvviso, e l'uomo precipitò nel vuoto.
Mentre il suo corpo
impattava duramente sul suolo sottostante, Tonani notò il ribollire della
sabbia intorno a lui, tutto attorno stavano uscendo dallo strato sabbioso
creature vagamente simili a enormi fiori dai petali carnosi.
“Mangiaruggine”, pensò
fuggevolmente mentre la sua coscienza svaniva, “Mangiaruggine”.
Sulla sommità della
torre, il mechardionico subì una trasformazione, il suo aspetto divenne più
nebuloso, indistinto, riacquistò l'apparenza del fantasma che effettivamente
era, il fantasma di un uomo la cui mente aveva vagato attraverso i pianeti e le
stelle ma rimaneva inequivocabilmente terrestre, un astronomo, il fantasma di
un uomo che in vita aveva portato il nome di Clyde Tombaugh.
L'anima di un uomo dopo
la scomparsa del corpo fisico, talvolta tarda a raggiungere il suo destino
ultraterreno: un compito, un desiderio, una vendetta da compiere, possono
ancora legarla al piano materiale.
Per tutta la sua vita,
Clyde era stato fiero di essere stato lo scopritore di Plutone, il nono pianeta
del sistema solare, ma poco dopo la sua morte era arrivato lo smacco: Plutone
era stato declassato a pianeta nano, e i mondi importanti che orbitavano
intorno al sole erano tornati a essere otto. Si era accorto che una parte
importante nell'influenzare la comunità scientifica a prendere quella
scellerata decisione, l'aveva avuta un libro di fantascienza scritto da un
autore italiano dove si parlava di un nono mondo, un Mondo9 alternativo a
Plutone, e benché si trattasse di null'altro che di una costruzione di
fantasia, il suo impatto psicologico l'aveva avuto.
Leggendo nella mente di
Dario Tonani morente, Clyde Tombaugh si rese conto che la sua vendetta non era
ancora completa. C'era un altro uomo che aveva dato concretezza a Mondo9 col
suo lavoro di illustratore, aveva fatto sì che tanti visualizzassero quella
fantasticheria come se fosse stata una realtà.
“Franco Brambilla”,
pensò, “adesso tocca a te”.
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