domenica 11 dicembre 2016

FANTAVALTELLINA di Giuseppe Novellino

     Nei primi giorni del giugno scorso, Giuseppe Garibaldi è uscito dalla sua statua che dà il nome alla bella piazza di cui tutti i sondriesi sono orgogliosi. E se ne è andato in giro per le vie del centro, guardando le vetrine, passando attraverso i corpi della gente, in una calda serata di inizio estate. Qualcuno l’ha visto, ovviamente, altrimenti non sarei qui a parlarne. L’ectoplasma dello storico personaggio avrebbe fatto anche una puntatina in banca, così, tanto per curiosare sui comportamenti finanziari dell’attuale società. Lui, certo, di soldi non aveva bisogno.     Poi è rientrato nella statua, dando, a detta di qualcuno, appuntamento per il prossimo anno.       Mi sono imbattuto nella notizia solo qualche giorno fa, quando ho visto un servizio della Tele locale. Si intervistavano tre esperti di parapsicologia, arrivati a Sondrio in veste di acchiappa fantasmi (con tanto di camice bianco, dico sul serio), non solo con l’intento di documentarsi sulla recente apparizione dell’Eroe dei Due Mondi, ma anche con l’idea di verificare l’avvistamento, nei nostri boschi, di due gnomi e di un unicorno.     La Valtellina sarebbe dunque infestata da fantasmi e da creature mitologiche. Dopo gli UFO della Valmalenco, assistiamo ancora al verificarsi di fenomeni che più che estranei definirei stranianti. Prima, con quegli incontri ravvicinati del solito tipo, eravamo piombati in un film di Spielberg; oggi, invece, siamo in piena fantasy.     Questa nostra Fantavaltellina mi lascia un po’ stordito. Va bene, un po’ sono orgoglioso di sapere che la nostra città ha un fantasma, e che razza di fantasma! Ma poi mi chiedo quale sia il significato del propagarsi di simili dicerie.     Non credo che il motivo sia quello di distogliere l’attenzione da problemi più concreti e più gravi. Infatti, chi si lascerebbe distrarre dall’idea che Giuseppe Garibaldi vada a fare un giretto nella sede della Banca Popolare, oppure che un unicorno pascoli nei boschi già pieni di cinghiali e di cervi? Come i dischi volanti della Val Malenco non sono riusciti a scuoterci più di tanto, così questi spiritelli fuori luogo e fuori tempo non possono esercitare un grande potere su di noi. Siamo nell’era del computer, dello smartphone, della pley-station, del dolby stereo. Cosa volete che possano fare degli gnomi, degli unicorni e dei fantasmi d’ottocentesca provenienza, e per lo più “reali”. E meno che meno verrebbero impressionati i bambini, i quali, vedendo il famoso cavallo monocornuto, scrollerebbero le spalle e direbbero semplicemente: – Figo, è tale e quale a quello del mio videogioco.     La ragione, secondo me, va ritrovata nella mente di tanti adulti che non sanno più leggere un buon romanzo di fantascienza o una novella fantasy. Eppure di questo hanno legittimamente bisogno.     I tre acchiappa fantasmi di cui sopra forse lo sanno e magari lucrano proprio su tale carenza.

    

martedì 29 novembre 2016

Il Guardiano della sabbia Antonio Ognibene

Il primo uomo su Marte potresti essere tu.”
Geremia Slasken faticò ad aprire le palpebre. Si stropicciò gli occhi, e con l'unghia del mignolo tolse le secrezioni dagli angoli.
Si mise a sedere sul letto e spense la suoneria melodica del vecchio smartphone.
Guardò l’immagine di sfondo sul vetro crepato: una ragazza sorridente che abbracciava un bambino dai boccoli castani.
 Aiutandosi con le mani, mise le gambe fuori dal letto.
Punto di arrivo: Marte, con biglietto di sola andata. Geremia Slasken, sessantenne di Borgolupo ancora con un fisico da atleta, è l’unico pensionato tra i cento aspiranti coloni selezionati in tutto il mondo, per l'audace impresa di colonizzare il Pianeta Rosso. Lo ha saputo Lunedì scorso, mentre andava a ritirare la pensione.
─ Un giorno che non dimenticherò mai ─ racconta al “Corriere Nazionale”.
─ Se me l’aspettavo? In realtà ero un po' scettico, all'inizio c’erano oltre duecentomila candidati, gente quasi tutta diplomata o laureata. Alla fine siamo passati in cento. Posso ormai dire di aver agguantato il mio sogno. Manca l'ultima selezione. ─ ridacchia ─ Chi l'avrebbe mai detto che su Marte sarebbe servito un faro.
Già, perché Geremia ha un attestato di farista, conseguito nel lontano 1970. Prima del pensionamento gestiva un faro della Marina Militare.
I colori delle luci dell'alba marziana non avevano ancora la forza di entrare dalle fessure dell'avvolgibile.
Ancora nella penombra, l’uomo attraversò la stanza da letto strisciando i piedi fino all'attaccapanni da cui prese un paio di jeans e una camicia bianca. Riusciva a distinguerli solo strizzando gli occhi.
La grande ambizione di Geremia si chiama Mars Destination, la missione multinazionale che ha l’obiettivo di creare una colonia umana permanente di ventiquattro persone su Marte. Ma c'è un dettaglio da non sottovalutare: non è contemplato il biglietto di ritorno.
Già, il viaggio prevede la sola andata. E vabè.
─ Al momento mancano i finanziamenti e la tecnologia per il ritorno, ma non è detto che tra una decina di anni le cose non si saranno evolute. Spero di esserci ancora. ─ dice scherzando.
Entrò in corridoio, poi in bagno.
Urinò in un contenitore a tenuta stagna, rabboccandolo. Il congegno era collegato alle tubazioni che terminavano in un dispositivo ATU-O2. Questa apparecchiatura consentiva di trasformare le minzioni dentro un biogas, che serviva per farsi docce calde e cucinare. I pannelli solari erano riservati soltanto per azionare il faro e le strumentazioni della base. Era una procedura che lo faceva sempre sorridere, perché pensava al problemino alla prostata.
Non hai paura di rimanere bloccato lassù?
─ Ci ho pensato spesso, sai? Ma la consapevolezza che qui sulla Terra non ho più nessuno, mi ha spinto a prendere la decisione. Eppoi il mio spirito di avventura ha fatto il resto.
─ Comunque saremo addestrati su come affrontare eventuali crolli psicologici. Potranno capitare situazioni parecchio difficili, dovremo essere pronti a coalizzarci per sopravvivere.
─ Mi aspettano un po' di anni di preparazione intensiva, con prove fisiche, psicologiche e attitudinali, prima di partire con lo scaglione iniziale di quattro astronauti nel 2025.
Sei già così sicuro di far parte dei ventiquattro coloni?
Sì, perché al momento siamo solo in due a possedere i requisiti per dirigere un faro: io e il mio vice, che è più giovane. Lui però avrà altre mansioni, mi sostituirà solo in caso di malattia o di... Mi tocco, ah,ah.
Girò la maniglia della doccia, e aspettò che l’acqua diventasse calda.
Si mise sotto il getto, esponendo il petto alla pioggia dei sottili e sprizzanti rivoletti. La cabina si era riempita di un intenso odore di cloro.
Uscendo lasciò una scia bagnata fino in cucina, dove, con gesti meccanici, mise su del caffè d’orzo.
Si accomodò a sedere a un anglo del tavolo, aspettando che la manopola del tostapane avesse finito il giro.
Ma perché tutta questa voglia di lasciare la Terra?
─ Ripeto, sono un pensionato con lo spirito avventuriero. Poi dopo la morte di mia figlia e del mio nipotino (In un incidente aereo tre anni fa , ndr) ho passato momenti di terribile depressione ─ racconta ─ fino a quando ho letto su Internet l'annuncio di Mars Destination. Vivere qui o su un altro pianeta, per me è la stessa cosa.
─ Certo, il paesaggio sarà più monotono di quello terrestre, ─ continua ─ ma non ho paura di annoiarmi. C’è un intero pianeta da scoprire. Come cantava Eugenio Finardi: “Voglio un  pianeta su cui ricominciare”.
Prese le fette di pane e ci spalmò sopra del burro. Avevano il solito sapore di sempre. Provò a mandarle giù con un paio di sorsate d’orzo, per dare un gusto diverso al boccone.
Guardò il calendario appeso al muro, per vedere quanto mancava al prossimo approvvigionamento.
Tu sarai l'eventuale addetto al faro della base, allora.
─ Esatto. Dovrò azionarlo quando ci saranno le tempeste di sabbia. In quel caso agli esploratori non basteranno solo i sistemi digitali. Il mio compito sarà proprio quello di dare loro un punto di riferimento per il  rientro alla base.
─ Vedi, su Marte le tempeste di sabbia possono estendersi su una piccola zona così come sull'intero pianeta. E sono in grado di durare anche un mese. Li chiamano “dust devil”.
I gradini scricchiolavano sotto i piedi dell'uomo, mentre saliva su per una rampa circondata da una struttura incastellata in acciaio, fino alla stanza di guardia. Con le mani e con i piedi si aggrappò a una scala a chiocciola che lo portò a una botola che conduceva al faro.
Nel locale c'era ancora quella nota profumata, fresca e rilassante di lavanda.
Pigiò alcuni pulsanti su un pannello di controllo e spinse in avanti un paio di leve che azionarono il meccanismo rotatorio del fanale a LED. Si assicurò che le spie degli accumulatori fotovoltaici fossero accese.
Una forma a spirale scura, si stava materializzando dalle parti di una rete di canyon.
Geremia si infilò la tuta spaziale e uscì fuori, appoggiando il ventre al parapetto. Avvicinò il binocolo alla visiera: tempesta di sabbia in arrivo.
Con gli occhi incollati sull'obiettivo, fece il giro della torretta. Ovunque guardasse, nella visuale del binocolo c'era solo un oceano di sabbia rossa.
Se le cose andranno secondo i tuoi piani, sarai un guardiano del faro a tempo pieno. Un incarico di altissima responsabilità.
─ Beh, è proprio così. Ma mi dovrò occupare anche di un piccolo appezzamento di terra, su cui coltivare un orto.
Diede un'occhiata allo smartphone. Il countdown era quasi completato. La spedizione sarebbe arrivata entro pochi minuti.
E se la missione dovesse saltare ?
─ Non salterà. Sono destinato a fare qualcosa di grande, lassù.
Rientrò nel faro girando i maniglioni che sigillavano il portone di acciaio a tenuta stagna.
Pressurizzò la stanza e si tolse il casco, riponendolo nell'armadietto assieme alla tuta.
All'improvviso si accese una spia rossa, seguita da un suono acuto. Le braccia di Geremia ebbero un brusco sussulto.
Scese in fretta la rampa di scale e andò verso l'ingresso. Nell'aria c'era ancora il profumo dell'orzo e delle fette di pane tostato.
─ Sono già qui? Possibile? ─ si domandò ─ devono essere arrivati da Ovest.
─ Buongiorno. ─ disse una voce al videofono ─ Il vento è molto forte oggi.
Geremia riconobbe uno dei medici della base.
─ Mi fa entrare? ─ chiese con cortesia ─ Non vorrei essere spazzato via.
─ Certo, certo. ─ balbettò disorientato.
Il guardiano azionò il dispositivo di momentanea depressurizzazione dal quadro di controllo.
─ Scusi dottore, ma come riesce a starsene là fuori senza tuta? ─ chiese mentre richiudeva la porta stagna dell'airlock.
L'uomo sorrise.
─ Gli androidi non hanno bisogno di tute spaziali. ─ disse strizzando l'occhio ─ E io sono un androide, non ricorda?
─ Ah... certo, certo ─ balbettò ─  lei è così reale che la scambio sempre per un... beh...
─ Un umano? ─ disse ─ E invece sono un ammasso di ossa in plastica, sangue chimico e tessuti artificiali.
─ Mi scusi, non era mia intenzione...  ─ disse imbarazzato ─ Comunque è un AD 2.0 di ultimissima generazione. Un ottimo modello.
─ Non si preoccupi ─ disse, appoggiandogli una mano sulla spalla. ─ non mi sento offeso.
─ E gli altri? ─ chiese Geremia, cercando di cambiare discorso.
─ Gli altri? Ah, già. Stanno parcheggiando il rover.
─ Parcheggiando? Dove?
─ In garage.
Geremia si grattò la nuca, manifestando uno stato di leggera confusione.
─ Boh?
─ Sono venuto a prenderle la pressione.
─ Ma io sto benissimo.
─ Lo so, ma fa parte della prassi, rammenta? Si stenda e mi dia il braccio, su.
Il medico applicò il bracciale dello sfigmomanometro digitale all'uomo.
─ Com'è? ─ chiese Geremia.
─ Non male. ─ disse, rimanendo attento nell'auscultare il battito cardiaco dallo stetoscopio.
Il medico rimise l'attrezzatura a posto e uscì salutando Geremia.
─ Bene, ci vediamo domattina.
─ A domani. ─ contraccambiò il farista, allacciandosi il polsino della camicia.
L'uomo in camice bianco attraversò il corridoio e si fermò davanti a una porta.
Bussò.
─ Avanti.
─ Buongiorno professore, ho qui la cartella clinica aggiornata del paziente arrivato l'altro ieri.
Il primario la prese in mano sorridendo.
─ Ah. Quel tipo che si crede un guardiano del faro su Marte. Continui pure ad assecondarlo.

venerdì 18 novembre 2016

TRIANGOLI di Giuseppe C. Budetta

  
Explorer VII rilevò gli aspetti più salienti del pianeta T. Le foto pervenute in redazione permisero di appurare i seguenti e peculiari aspetti. Le nubi non essere rigonfie sfere, le montagne non coni, le costiere non simili a cerchiature. Arcipelaghi, isole e continenti avevano forme omologhe a parallelepipedo triangolare, prive di fratture, abissi e pericolose forre. Sul pianeta T, la natura era spigolosa e multicolore, secondo poche, basilari regole morfometriche. Su T. ci sarebbe uno stretto rapporto tra natura e geometria frattale, per cui oggetti e cose animate ed inanimate sarebbero auto similari, in rapporti costanti, esprimibili con numeri reali.
   Tranne la sfericità dell’astro su T. tutto sarebbe riportabile alla triangolarità. A detta, ci sarebbero due oceani e tre continenti. Gli oceani sarebbero l’Atlantico ed il Pacifico e non il Pacifico, Atlantico e l’Indiano come qui. Il primo avrebbe per base maggiore la riviera africana e per apice l’istmo tra le Americhe. Il Pacifico avrebbe per base l’Eurasia, tra la punta siberiana e quella indocinese con vertice tra le Americhe, dalla parte opposta all’Atlantico. I tre continenti sarebbero l’africano con base rivolta all’eurasica punta. L’Eurasia sarebbe divisa da una bisettrice in due parti: la occidentale detta Europa e la zona orientale cinese – siberiana - indocinese. L’americano continente sarebbe costituito da due piastre continentali con la forma di triangoli ottusangoli, uniti ai vertici apicali lungo lo stretto di Panama.
   Ci sarebbero isole come l’Australia, il Madagascar e, nell’emisfero settentrionale la Groenlandia di triangolare forma, l’unica possibile nella planetaria geografia. Penisole, golfi, insenature ed arcipelaghi sarebbero rigidamente triforcuti. Dei poli, il nord sarebbe isoscele, scaleno il sud.
   Monti e colline sarebbero per lo più triangoli scaleni, differenti per altezza ed ampiezza di base. In inverno, i vertici più elevati diverrebbero bianchi per la neve. Ammassi nuvolosi si aggregherebbero in ottusangoli od acutangoli lattescenti, nell’azzurrità plananti. Idem rocce, pietre, scogli e le scaglie del mare mosso. Le pianure sarebbero triangoli a simmetria assiale con base sulla linea costiera e punta incuneata tra contrapposte catene montagnose. I laghi azzurri, vari per tonalità ed estensione, rientrerebbero nei parametri dell’unico insieme euclideo, come la flora con alberi e fiori di morfologia standard a tre spigoli. Tra la flora, i pini avrebbero una rigida configurazione conica, ma con differente altezza tra albero ed albero. I vegetali non avrebbero tronco, o gambo, o stelo e starebbero fissi a terra, come incollati per la base. Alberi triangolari e verdi sarebbero diversi per obliquità di lato, altezza e tonalità. Ci sarebbero boschi iridescenti, con variopinta flora a forma di equilateri, d’isosceli, di scaleni, di rettangoli, acutangoli ed ottusangoli. In autunno, l’area totale di molti alberi si scolorirebbe, o si riempirebbe di colori accesi. I variopinti fiori avrebbero petali triangolari, differenti in obliquità e foggia. Avrebbero ad isoscele il gambo sghembo con apice infisso a terra. I funghi sarebbero ottusangoli scaleni. Velenosi sarebbero gli equilateri.
   La fauna di pesci, rettili, anfibi, uccelli e di mammiferi inutile dirlo, sarebbe triangolare. Gli uccelli in volo sembrerebbero aquiloni colorati. Alcuni pesci nuoterebbero con asse perpendicolare al fondo marino, altri in orizzontale come mantidi. I rettili sarebbero isosceli oblunghi e striscerebbero per una della duplice, equivalente superficie. I cetacei nuoterebbero in orizzontale come sulla Terra. La vita sub microscopica avrebbe in toto il tricuspidale aspetto: batteri, protozoi ciliati ed infusori, miceti e saccaromiceti, virus virulenti e cellule degli organismi superiori. Tutto su T darebbe 180° per somma dei tre angoli interni; l’area risponderebbe alla formula generale della base per altezza e prodotto diviso due.
   In campo umano, ci sarebbero due razze: gli acutangoli e gli ottusangoli. In questi due grandi insiemi della euclidea geometria, si distinguerebbero popoli rettangolari, equilateri, isosceli e scaleni. Nel vertice A, gli umani di T avrebbero bocca per il transito d’alimenti ed aria. In B, ci sarebbe deflusso d’urina e spermatico se maschi o solo urina, se femmine. L’accoppiamento sessuale avverrebbe per contatto tra i due vertici B, il maschile e l’omologo femminile. In prossimità dell’angolo B, ci sarebbe nelle femmine la zona uterina.  Il vertice C sarebbe il culo e servirebbe all’uopo per cacare.
   Il dialogo tra triangoli umani avverrebbe illuminando l’angolo buccale apicale. Luci di diversa durata e intensità di voxel comporrebbero parole e frasi. L’intervallo tra emissioni luminose corrisponderebbe a pause di silenzio. Su T. l’insieme dei triangoli equilateri deterrebbe l’effettivo potere in base alle leggi della similitudine geometrica. I matrimoni avverrebbero tra individui di similare geometria: equilateri con equilateri, isosceli con isosceli e scaleni con scaleni.
   Ammesse le coppie di differente altezza, ma dello stesso insieme. Le più stabili sarebbero coppie di triangoli rettangoli con eguale ipotenusa, sottomessi alla relativa legge pitagorica. Le coppie a simmetria assiale, o centrale sarebbero compatibili nei limiti estremi.
   I matrimoni a prova di boma sarebbero tra equilateri ad angoli congruenti, a due a due proporzionali, o simili con lati proporzionali ed opposti ad angoli isometrici, oppure con angoli isometrici opposti a lati proporzionali. Essendoci la democrazia, ammessa sarebbe la copula en passant tra triangoli dissimili: equilateri e scaleni, isosceli ed equilateri, scaleni e isosceli. Questi tipi di accoppiamento sarebbero sterili in base alle leggi geometriche che su T condizionerebbero la genetica. Su T. divorzi e separazioni sarebbero numerosi tra coppie isoscele e scalene; le più stabili quelle tra equilateri, pur se differenti in area, perimetro ed altezza.
   Gli equilateri rettangolari avrebbero mente quadrata, adatta per gli studi economici, la statistica e la matematica. Gl’isosceli con spiccata altezza sarebbero atleti, ottimi nuotatori e acrobati. Gli scaleni sarebbero temuti perché artisti, imprevedibili e creativi.
   I geni avrebbero bisettrici perpendicolari con rette secanti di lunghezza tra 5,2 e 5,3.
I parlamentari di T. eletti secondo la legge di Carnot, nell’emanare leggi, osserverebbero le regole fissate nei teoremi del coseno, della bisettrice semplice e della bisettrice all’angolo esterno a parallele rette. I popoli di T adorerebbero un Dio uno e trino, simboleggiato nella perfezione della equilatera triangolarità: al vertice ci sarebbe il Padre, alla base di destra il Figlio ed a sinistra dell’euclideo spazio lo Spirito Santo. Amen.
   Il quoziente intellettivo QI dei triangoli umanoidi sarebbe collegato alla morfometria e si otterrebbe moltiplicando l’altezza per la distanza della base dal baricentro diviso tre, numero perfetto. Si otterrebbe un range oscillante tra 8 e 9. Negli animali domestici di T, sarebbe possibile ricavare il QI con la stessa formula. Le scimmie avrebbero un Q.I. tra 5 e 6. Il triangolo elefante avrebbe Q.I. tra 7 e 8, l’equino tra 4 e 5. Nessuna specie eguaglierebbe l’umano QI.
   Gli esseri animati si sposterebbero lungo la loro base, strisciando su strette docciature. Queste strisce su cui deambulare sarebbero state tracciate al suolo. Col progresso, sarebbero stati allestiti sottili binari tra loro intrecciati e intersecati. Un umano di T avrebbe detto: è stato come mettere le scarpe. Per evitare che i continenti si riempissero di binari, si sarebbe stabilito che il percosso debba avvenire in determinate aree. Le rimanenti zone sarebbero state riservate al verde. Uomini, cani, gatti, cavalli e selvaggina si sposterebbero, scivolando con la rispettiva base rettilinea sui binari. Se uno esce fuori, cade di lato, o s’incrina su un angolo, muore frantumandosi. Alcuni auspicavano lo sfondamento del rigido spazio euclideo. Pur sperandoci, nessuno era riuscito ad infrangerlo.
   Da un punto di vista evolutivo, i triangoli deriverebbero da rettangoli, o da quadrati per suddivisione lungo le diagonali. Secondo altre teorie matematiche, i triangoli si sarebbero evoluti dalla quadruplice frantumazione di rombi irregolari. Altri sarebbero del parere che derivino, o da divisioni multiple di poligoni regolari o viceversa, per riduzione graduale della lateralità degli stessi poligoni regolari. La tesi più accreditata – confortata dal rinvenimento di fossili del Triassico - li vorrebbe derivati da quadrilateri trapezoidi con angoli adiacenti supplementari per incremento progressivo dell’altezza e la riduzione della minore base. Dunque in epoche ancestrali, la geometria prevalente su T sarebbe stata la trapezoidale, accresciutasi gradualmente fino a trasformarsi nella definitiva triangolare. Ciò sarebbe avvenuto anche per flora, fauna, microbi e virus. Tant’è.
  Terrestri economisti affermano che questo tipo di evoluzione sia erronea ed alla fine dannosa. Questi esperti sostengono che non ci sia il bisogno d’incapsulare la gente nei rigidi schemi della geometria euclidea. Conferendo il potere economico, politico e sociale a pochi eletti il tutto fila liscio. Occorre che l’economia sia retta da leggi indeformabili come binari. In questo modo, gl’individui vivono secondo schemi predeterminati, illudendosi di essere liberi e felici, o quasi.  

 

sabato 12 novembre 2016

FOTOGRAFIA TOTALE di Peppe Murro

-E' fatta !
John Eastman jr e Bill Zuckerberg VII si volsero con un sorriso raggiante verso la folla impazzita di giornalisti e fotografi. Si strinsero la mano e si concessero, come si suole, alla pioggia dei flashes.
Poi John Eastman fece il gesto di calmare la folla, si avvicinò al microfono e:
-Signore e Signori, sarò breve. Oggi, e lo dico con orgoglio e senza presunzione, annunciamo un evento epocale nella storia dell'umanità. Sono qui con l'amico Bill perché è grazie agli sforzi congiunti dei nostri due team che abbiamo raggiunto un tale risultato. Io so dei tanti rumors che hanno preceduto questo incontro, ma, credetemi, quanto sto per dirvi è ben al di là delle voci e delle congetture.
Signori, abbiamo la macchina fotografica totale.
E dicendo così, fa un plateale gesto di invito: entra una signorina elegante in tailleur scuro con un vassoio coperto da un leggero panno giallo.
Si avvicina a Eastman e toglie il panno.
Mormorio di sorpresa, sembrava non ci fosse nulla sotto; a malapena quelli in prima fila riuscirono a vedere dei fili sottilissimi calarsi dal ripiano.
 E mentre montava il rumore dello sconcerto, alle spalle dei tre, sul palco, si vide proiettata un'enorme immagine di due dita che tenevano insieme una sottilissima lente con dei filini penzolanti.
-Ecco -  riprese Eastman - state osservando la macchina fotografica del futuro, anzi, quella del sempre.
Fu interrotto da un brusio che divenne presto clamore e calca di domande.
John Eastman guardò Bill serafico e sorrise:
-Calma, calma, signori; vi spiegherò ogni cosa. Quella che vedete, o che forse non vedete, è la cosa di cui vi parlavo.
A prima vista sembra una piccolissima lente; vi dico subito che ha appena il diametro di una pupilla umana; è sottile 5 micron e si applica come una comune lente a contatto. La novità sta nelle caratteristiche che vi elencherò in breve e con un linguaggio comprensibile, prima di dare la parola all'amico Bill:
Sensore da 180 MB; Velocità di scatto da 1h a 1/5000 di sec; Zomm da 7 a 300mm; Autoflah disinseribile; Luminosità costante di 0,5, cioé due volte la capacità visiva dell'occhio umano...
Fu interrotto da una marea inarrestabile di voci
-Signor Eastman, Sig. Eastman (le domande si accavallavano) lei sta dicendo che questa sua lente ha una capacità di definizione che non riusciamo a immaginare, una velocità di scatto impensabile, una possibilità di visione doppia di quella umana e che avvivina di circa sei volte ciò che normalmente vediamo ?
-Non solo, sorrise John, ma ribadisco che questa macchina fotografica aumenta a dismisura la capacità umana di vedere oggetti lontani od al buio, di fermare il movimento più veloce e con una discriminazione dei particolari che lei neppure immagina.
-Sig. Eastman, Signor Eastman...
-Vi prego, dopo, dopo avrete dai nostri tecnici tutti i chiarimenti.
Ora calma, per favore: l'amico Bill ha qualcosa di importante da comunicarvi.
Si fece silenzio a fatica.
 Bill Zuckergerg VII si avvicinò al microfono, si schiarì la voce e:
 -Mi sarebbe piaciuto iniziare raccontandovi il sogno del mio antenato, anzi, dei miei antenati Gates e Zuckerberg, di cui indegnamente porto nome e cognome,quello di una connesione permantente planetaria, ma voglio essere anch'io breve: quei filini che vedete uscire dalla "lente" sono degli elettrodi che vanno collegati direttamente alla rete neurale del soggetto umano.
Ci fu un silenzio frastornante: penne alzate a mezz'aria, bocche spalancate, qualche sguardo sperduto. Anche nelle ultime file.
 Bill continuò con calma:
-La "lente" va poggiata davanti alla pupilla come una comune lente a contatto, ma i fili sono collegati al nervo ottico e da lì ad ognuno dei due lobi del cervello.
La vera novità, infatti, della nostra macchina fotografica non è nelle sue pur notevolissime doti tecniche, ma consiste nel fatto che essa può essere comandata direttamente dalla mente del soggetto.
 Invece che schiacciare un pulsante col dito, basta pensare di volere una foto e quella è fatta !
E non solo! si può desiderare di condividerla con qualcuno e con una semplice app di default si è direttamente e permanentemente connessi con tutti.
E ancora, Signori, se si desidera farsi un selfie è possibilissimo; anzi possiamo decidere di autofotografarci alle Bahamas o sull'Everest o senza rughe, come comunque ci piacciamo e come desideriamo che gli altri ci vedano.
Insomma, cari Signori giornalisti, questa macchina fotografica non solo è quanto di più potente si possa avere, ma anche quanto di più desiderabile ci sia.
E solo per la nostra gioia di condividere con gli altri tutte le nostra emozioni. Sempre connessi e sempre come ci vogliamo...
Nel silenzio sbigottito ed ovattato dei presenti si levò dal fondo una voce occhialuta e stridula:
- Scusi...
-Dica, fece Bill condiscendente.
-Scusi, sono il corrispondente del giornale locale di Las Fuentes, New Mexico. Avrei una domanda; se si possono fotografare i desideri, allora si possono fotografare anche i propri sogni ?
-Penso proprio di si - fece Bill schiarendosi la gola e guardandosi intorno con un misto di soddisfazione ed apprensione.
-E come si fa- continuò il piccolo giornalista occhialuto- a non fotografare i propri incubi ?

mercoledì 9 novembre 2016

GENESI di Teresa Regna

Era una radiosa giornata, assolata ma non eccessivamente calda poiché una brezza leggera soffiava verso est. Un pensiero illegale si insinuò, lieve come una piuma, nella mente di Samkel: e se non fosse andato a scuola? Era sufficiente svoltare a destra, in direzione del parco, invece che a sinistra, e sperare che nessun adulto se ne accorgesse.
Mentre il bambino era immerso in questa riflessione, Xelin, un compagno di classe, gli si avvicinò senza far rumore. “Cosa hai intenzione di fare?”, chiese, con voce sinistramente melliflua.
“Vado a scuola, proprio come te”, rispose Samkel, timoroso che il pensiero illegale che l’aveva sfiorato potesse essersi riflesso nel suo sguardo. Xelin non avrebbe esitato un attimo a denunciarlo all’insegnante, ne era certo. Si incamminò a fianco del compagno, con gli occhi bassi.
“Oggi è un gran giorno”, affermò Xelin, riprendendo il cammino interrotto. “Abbiamo la prima lezione di religione”.
*****
L’uomo rabbrividì. Era nudo, disteso su un letto situato all’interno di un contenitore cilindrico. La penombra in cui era immerso si dissipò a poco a poco, e anche la sua mente riprese pian piano a schiarirsi.
Edward Williams, questo era il suo nome. Era stato ibernato... quanto tempo prima? Non lo ricordava. Perché non c’era nessuno ad accoglierlo? Dov’erano gli abiti?
Lentamente, cominciò a muoversi. Trascorsero alcuni minuti prima che riuscisse a riacquistare la completa padronanza sul proprio corpo, e a ricordare il motivo per cui aveva deciso di farsi ibernare. Gli abiti erano accanto a lui, in un contenitore cubico.
*****
L’insegnante scoccò a Samkel un’occhiata severa, ed ottenne l’effetto desiderato: lo sguardo dell’alunno si distolse dalla vetrata d’ingresso, posandosi sul libro aperto. Quando si insegna in una classe di trentacinque bambini non è possibile fare alcuna concessione; bisogna mantenere la disciplina anche a costo di sembrare insopportabili.
Il libro si chiamava Genesi o Libro delle Leggende. Samkel lo riteneva poco interessante: conosceva già da tempo il suo contenuto. Ogni bambino della classe aveva udito quelle storie almeno un centinaio di volte, raccontate dai genitori anziani oppure dagli uguali di qualche anno più grandi.
In principio era il Caos. Poi Adev, genitore di tutti i viventi, decise che era tempo di dare una forma al Caos. Pertanto creò il Mondo, il Cielo, il Sole, le Stelle e i Pianeti. Generò infine tutto ciò che si trova sul Mondo, incluso l’Uomo, al quale assegnò il compito di popolare il pianeta...
Un raggio di sole colpì il banco di Samkel. Che peccato dover restare al chiuso, a leggere quelle vecchie storie noiose, pensò il bambino. Staccò gli occhi dal libro, e cominciò a seguire il corso delle sue riflessioni. Per sua fortuna, l’insegnante non se ne accorse.
 *****
I capelli erano cresciuti, sia pure a ritmo ridotto, durante il periodo di ibernazione, e ora si ostinavano a ricadere negli occhi di Ed. L’uomo li ravviò con un gesto impaziente mentre si allontanava dalla costruzione che l’aveva ospitato per... quanti anni? La memoria continuava a giocargli dei brutti scherzi, dopo il risveglio.
In cuor suo sperava di non incontrare nessuno finché non fosse riuscito a stabilire, con una certa approssimazione, in quale epoca era finito e, soprattutto, che tipo di persone popolassero la Terra. Non erano mai stati troppo amichevoli con gli stranieri, i terrestri. E lui, in un’epoca posteriore alla sua, era uno straniero.
Cominciò ad osservare le costruzioni che lo circondavano: avevano una forma familiare, ma parevano fatte interamente di vetro, o di un materiale con le stesse proprietà. A quell’ora tutti gli abitanti dovevano essere al lavoro, perché non si scorgeva anima viva. Cosa era accaduto mentre lui era ibernato? La curiosità lo divorava: aveva dormito per tanto tempo che gli pareva di essere un neonato appena uscito dall’utero materno. Avvertiva un bisogno quasi fisiologico di scoprire il mondo.
Samkel sbucò, all’improvviso, da una stradina laterale. Preso alla sprovvista, Ed non fece in tempo a nascondersi. Quello che aveva di fronte sembrava un bambino del tutto normale, e la sua espressione era così dolce che l’uomo ne fu subito conquistato.
In una lingua tutto sommato comprensibile, anche se leggermente diversa da quella adoperata all’epoca di Ed, Samkel chiese “Chi sei?”. Lo scrutò con attenzione per qualche istante, poi aggiunse “Conosco tutti qui in città, eppure non ti ho mai visto prima”.
“Sono nuovo di qui”, rispose l’uomo, dopo aver tirato un sospiro di sollievo all’idea di non avere alcun problema di comunicazione. “Potresti dirmi dove mi trovo?”.
Il bambino sembrava sbigottito da quella semplice richiesta. Siccome, però, sarebbe stato scortese evitare di rispondere ad un adulto, spiegò “Siamo a Nakaliss. Non conosci la capitale di Mondo?”. Continuò a scrutarlo con sguardo indagatore, e aggiunse “I tuoi abiti sono strani, e non somigli agli altri adulti. Perché non mi dici chi sei?”.
Ed non ritenne opportuno fornire quelle spiegazioni ad un bambino. “Dove posso trovare un uomo autorevole?”, domandò ancora. Il suo tono tradiva una certa esitazione, che faceva il paio con l’accento inequivocabilmente straniero.
“Non capisco perché usi le parole della Genesi”, sbottò Samkel, sempre più sbalordito. “Io sono un bambino, tu sei un adulto. Uomo siamo tutti noi”.
Fu Ed a stupirsi, questa volta: nel futuro non adoperavano il termine uomo per riferirsi ad un individuo? Tentò ancora. “Chi è il capo di questa città?”.
“Non conosci nemmeno il nome del Sacerdote Massimo?”. Il bambino cominciava a sospettare che l’adulto provenisse da un altro pianeta. “Ti porterò da Kantel”, affermò, infine. “Chiederai al Sommo quello che vuoi sapere”. La decisione appena presa lo fece sentire molto saggio.
*****
A giudicare dalla tuta color porpora che indossava, Kantel doveva essere non solo il capo della città, ma dell’intero pianeta. Una sola volta in vita sua Ed aveva visto un altro abito di quel colore, addosso ad una spogliarellista.
L’espressione del Sommo era indecifrabile. Non sarebbe stato facile spiegare cosa ci faceva lì un uomo del ventunesimo secolo a quell’individuo che pareva la quintessenza dell’impassibilità.
“Buongiorno”, lo salutò, tentando di imprimere alla voce un tono cordiale.
“Pace a te, straniero”, replicò una voce dal timbro femmineo.
In un lampo, Ed capì. Impiegò una manciata di secondi a riacquistare il controllo di sé. Mentre riordinava le idee, replicò “Pace anche a te, Sommo”. C’erano un paio di particolari che ancora gli sfuggivano.
 *****
Poco dopo la sua ibernazione, doveva essere scoppiato il temuto conflitto nucleare. La terra si era spopolata, ma la sua creatura aveva trovato l’habitat adatto per riprodursi e prosperare. Nel volgere di poche generazioni, i suoi discendenti avevano riempito il pianeta.
Adev, probabilmente, aveva raccontato ai figli e ai nipoti la sua storia, ma poi essa era andata perduta col passare degli anni. Oppure lo stesso Adev aveva preferito dimenticare che un tempo c’erano stati uomini e donne, e che lui/lei era il frutto di una deliberata mutazione genetica operata con il suo consenso dal professor Edward Williams.
D’altro canto, ogni popolo si crea il dio che preferisce. E forse un dio umano non era abbastanza allettante per i nuovi terrestri.
Non avrebbe mai immaginato, però, che dalla sua creatura, Adev, sarebbero nati dei fanatici religiosi tanto intolleranti da far invidia alla Santa Inquisizione. Perché si era ostinato a voler difendere la verità?
Era ormai giunto al termine della sua esistenza: all’alba lo avrebbero impiccato per eresia. Sarebbe stato giustiziato dai pronipoti dell’androgino che aveva creato allo scopo di rendere migliore l’umanità.
Chissà perché, aveva una gran voglia di ridere.

 

 

 

domenica 6 novembre 2016

CASCHETTO CERCASI di Frank Bernardi

Durò assai poco la piena libertà di noi semi - umani, oppure disumani o mezzi - umani o come ci vollero chiamare nel passato e come non ci avrebbero più dovuto chiamare nell'oggi. Solo che, come ho appena detto, tale libertà o senso di libertà non ebbe poi molte occasioni per manifestarsi.
Tutto ebbe inizio tanto tempo fa, come si legge nell'esordio di tanti racconti e raccontini. Long time ago... Non avemmo genitori, non eravamo figli di discendenza alcuna, visto che eravamo nati artificialmente con qualcosa di umano e altre cose artificiali, senza le quali non saremmo neanche vissuti, financo nemmeno concepiti. Eppure per disgrazia nostra e solo nostra ci concepirono e ci buttarono sul mercato, sulla terra, nel mondo, in cerca di occupazione. Anzi, furono "loro", gli stramaledetti "loro" a darci qualche occupazione da schiavi, servi, gendarmi, cavie, soldati. E via con la lista di impieghi da emarginati in cerca di riscatto che tale riscatto mai troveranno perché è ab origine che la tara si annida in noi. E in noi si annida poiché noi tutti fummo creati da creatori umani per ubbidire ai creatori nostri.
Gli inizi? Ci vuole poca immaginazione a concepirli.
I primi pezzi sfornati da incerti laboratori diretti da altrettanto incerte mani erano mostri mezzi macchina e mezzo uomo o mezza donna. Parti artificiali in rilievo palese, occhi finti, oppure occhi veri e braccia finte, gambe di metallo, unghie di plastica e un cervello sviluppato a forza di chip infilati in serie nelle meningi. Eravamo i mostri del mondo, bastava uno straccio di embrione e qualche seme di metallo autosviluppantesi perché la parte artificiale crescesse lasciando libera quella naturale di svilupparsi a sua volta. Ma come si sviluppava la parte naturale? Codesta parte, a dire il vero, si sarebbe voluta sviluppare secondo indicazioni del dna originario, ma trovava ostacolo nello sviluppo del dna artificiale, un misto di organico e di metallico. Le due zone, mai fuse, mai entrate in comunione, cominciarono a urtarsi e confliggere l'una con l'altra fino, appunto, a degli esiti clamorosamente disgraziati, che seminarono il terrore per tutto il mondo, dopo che molti di noi, ancora in una fase di sviluppo iniziale, da non rivelare, riuscirono ad evadere da due o tre laboratori lager e gironzolare liberamente, senza nulla fare però, non uccidendo nessuno, anche se ce ne sarebbe stato ampio motivo, non fosse che per esigere vendetta da coloro che ci avevano fatto nascere e ci avevano scaraventato in quell'inferno. Bastarono alcune foto fatte girare per il web (ovviamente tutti sapete cosa sia) e l'esistenza di tali laboratori fu resa nota con ripercussioni immaginabili. I nostri governanti decisero dunque di chiuderla con quel filone e misero i sigilli agli esperimenti.
Per finta.
Nei parlamenti si moltiplicarono le petizioni e gli interventi affinché ogni cosa fosse portata alla luce del sole, affinché fosse fatta chiarezza piena su quelli che si potevano definire gli sviluppi dell'umanità tutta. "Non vogliamo morire robot" fu il grido che percorse il globo da un angolo all'altro. Slogan errato, poiché quello giusto sarebbe dovuto essere: "Non vogliamo nascere robot". Robot, infatti, si nasceva. Un po' di materiale d'embrione, tanto per avere due occhi, due mani e due gambe, tanto per stare in piedi. E poi la parte artificiale, quella che determinava impulsi e ragionamenti. Se poi si voleva tentare la sorte, si sarebbero potuti programmare organi misti, natural - meccanici. Braccia robuste ma metalliche, una super vista (con occhi di tipi periscopico, terrificanti, inammissibili). O super denti, con una dentatura da squalo, rilucente metallo, capace di frantumare sassi e ferro (con adeguato sistema digerente artificiale e tubo di espulsione a corredo di tutto questo). Insomma, si poteva variare a seconda delle esigenze. Se servivano cinquecento operai schiavizzati, ecco che si potevano commissionare alle ditte specializzate. Se occorreva un esercito di netturbini, ecco l'esercito, almeno su carta. Dico "su carta" perché, dopo i primi esperimenti dall'esito mostruoso e la diffusione dei medesimi esiti presso media e opinione pubblica, si mise uno stop a sperimentazione e eventuali commesse.
Per finta, però.
Perché ai governi non conveniva affatto buttare via l'occasione, nossignore. Così in segretissimi laboratori statali, sorvegliatissimi per evitare brutte sorprese come quelle che c'erano già state, iniziò una sorta di count down per creare l'uomo del futuro, o la donna del futuro: esternamente identici agli esseri umani circolanti nati da donna, ma con qualcosa in più, vale a dire un micro chip talmente chip da essere non rilevabile. Fummo creati e messi su piazza all'età di qualche mese, fumo dati in adozione, andammo a scuola, alle elementari e poi alle superiori. E poi tutto il resto. Ci fidanzammo, ci sposammo ma poi si scoprì che eravamo sterili. Per molte coppie eterosessuali questo fu un dramma, un po' meno lo fu per le coppie omosessuali, meno condizionate dall'aspettativa di avere un figlio in maniera naturale. Ma comunque sempre di dramma si trattò. Il dramma aumentò di estensione. Molte coppie al mondo si rivelarono sterili. I tassi di infertilità furono alti. Si diede la colpa ora a questa cosa, ora a quest'altra, le solite ragioni che si avanzano quando si è nell'incertezza. La risposta vera alla domanda era la seguente: troppi esseri metà artificiali metà naturali erano stati messi su piazza. Già, ma quanti furono? Milioni? Quanti milioni? Tanti quanti, per esempio, gli esemplari di computer portatili venduti (intendo i famosi computer da tasca che sostituirono gli arcaici iPad o come si chiamavano cent'anni fa...)? Gli stessi creatori di noi mezzi umani e mezzi no, gli stessi che ci avevano fabbricato, avevano perso il conto.
A meno che...
A meno che noi, mezzi e mezzi, non avessimo trovato un modo per riprodurci. Con quale risultato? Nessuno avrebbe potuto prevederlo. Quello di creare una nuova razza dominante? Noi, lo dico subito, non eravamo consapevoli della nostra diversità. No, non lo eravamo. Fino ad un certo punto.
Fino a che non entrai in contatto con certa gente che mi fece capire che io, proprio io, ero un mix di roba, un mix di robaccia. Non ero nato da donna, ma in laboratorio. Troppi, al mondo, erano nati in laboratorio. Nel nostro cranio era impiantato un micro chip, assi micro, non rilevabile. Dovevamo estrarlo. Ma come? Non c'era il rischio di morire? E poi, se nemmeno si poteva rilevare...
Sì, lo si poteva rilevare ma non era cosa immediata.
E cosa avvenne? Come si conclude la storia?
Mentre noi prendevamo coscienza del nostro stato, anche i governi, i creatori, prendevano coscienza che noi stavamo prendendo coscienza.
E forse nei governi già lavoravano, erano presenti, esseri artificiali? E forse già gli artificiali potevano riprodursi? I governi dovevano intervenire.
Fu inviato un segnale universale che avrebbe dovuto raggiungere il micro micro chip impiantato in noi al fine di ridurci all'obbedienza più assoluta, senza che dall'esterno si vedesse nulla. E qui finisce per il momento la storia. Coi governi che mandano impulsi e noi che giriamo dalla mattina alla sera con un casco di metallo per impedire che l'ordine wireless dei governi ci raggiunga. Funzionerà, non funzionerà? Chi lo sa. Anche perché non si capisce chi sia artificiale e chi non lo sia. Tutti vogliono il caschetto, che ormai non si trova più neanche al mercato nero. Ecco come va il mondo oggi.

venerdì 4 novembre 2016

UNA PIACEVOLE SORPRESA di Paolo Secondini

Il sergente maggiore Eric Dona stringeva nel pugno il calcio della sua pistola. Era pronto a sparare all’alieno che a piccoli passi avanzava verso di lui per divorarlo. Molti suoi commilitoni erano stati orribilmente sbranati e mangiati da simili mostri.
Quale ne fosse il vero aspetto, il sergente maggiore lo ignorava, poiché lo cambiavano continuamente a seconda delle circostanze.
La loro capacità di trasformazione era sorprendente, come quella di penetrare per via telepatica nella mente di chiunque e carpirne pensieri, ricordi, immagini.
L’alieno – che ora avanzava verso di lui – aveva assunto l’aspetto di Muryel, la giovane moglie che Eric aveva lasciato su Terra, distante da Holigon, il pianeta su cui si trovava, centinaia d’anni luce.
Il sergente maggiore non si sarebbe lasciato ingannare: sapeva perfettamente chi avesse dinanzi e come affrontarlo.
Tuttavia esitava a sparare… ma proprio quando stava per premere il grilletto, si bloccò.
L’holigoniano aveva iniziato a parlare: la sua voce era identica a quella di Muryel.
«Sono tanto felice, amore, di essere qui. Ormai disperavo di rivederti, dopo tutti quest’anni di lontananza.»
«Chi… chi sei?» balbettò, incredulo, il sergente maggiore.
«Ma sono tua moglie! Non mi riconosci? Vieni tra le mie braccia, tesoro! Non puoi immaginare quant’abbia sofferto per la tua mancanza. Oh, ti desidero tanto! Metti via quell’orribile arma. Mi fai paura. Che cos’hai da temere?»
Eric Dona indietreggiò di qualche passo, la pistola sempre nel pugno e puntata contro l’alieno.
Ripeté, debolmente:
«Chi sei?»
«Sono io, Muryel: la tua dolce, piccola Muryel. Ricordi? Mi chiamavi proprio così... Quanti anni sono passati da quando sei partito? Cinque, quasi sei!... Avvicinati dunque. Perché indugi? Mi sei tanto mancato, tesoro! Mi mancano molto i tuoi baci, le tue carezze, le tue parole affettuose. Oh, sapessi!... Un tempo mi amavi immensamente, con tutto te stesso. Non vorrei che per colpa della lontananza fosse scemato il tuo amore per me. No, non credo! Sono sicura che ancora mi ami, come io amo te… Su, avanti, che aspetti? Abbracciami, baciami, stringimi.»
Innamorato più che mai, il sergente maggiore abbassò la sua arma e corse dalla sua dolce, piccola Muryel. Ma nell’istante in cui questa stava per cingerlo con le sue braccia, egli alzò di nuovo la pistola e fece fuoco: una, due, tre volte…
Con un grido straziante l’alieno cadde pesantemente a terra e, dopo un sussulto, rimase immobile.
Il sergente maggiore attese che le fattezze di Muryel svanissero, per lasciare il posto a quelle reali dell’holigoniano, ma ciò non avvenne.
Allora sgranò gli occhi e sentì il respiro mancargli all’improvviso, mentre un freddo sudore gli imperlava la fronte, gli scorreva lungo la schiena.
«Ma… che succede?» balbettò. «Ora che è morto, la sua mente non può controllare la forma del suo corpo.»
Si guardò per un attimo intorno, come a cercare qualcuno cui domandare spiegazioni.
Poi tornò a fissare, ai suoi piedi, il corpo esanime di… Muryel.
 ***
Per poco non impazzì quando, più tardi, egli apprese che il Distretto Spaziale di Holigon aveva segretamente invitato sul pianeta, per un breve periodo di soggiorno, un famigliare di ogni soldato.
Doveva essere, per ciascuno di loro, una piacevole sorpresa.

mercoledì 2 novembre 2016

INTELLIGENZA NEL COSMO di Peppe Murro

Aveva percorso tutta la galassia alla ricerca di specie intelligenti.
Il viaggio era stato lungo e penoso: qua e là forme primitive di vita, ogni tanto esseri strani che evolvevano in atmosfere di ammoniaca e metano, ma niente che denunciasse intelligenza e men che mai tecnologia.
Piuttosto annoiato e scoraggiato -o uno più dell'altro- era giunto in prossimità di un sistema stellare marginale dove ruotavano ordinati diversi pianeti.
"Sarà come le altre volte", pensò, e gli venne voglia di passare oltre, ma l'innata onestà della sua specie e il severo addestramento militare glielo proibivano.
Attivò allora i sensori dell'astronave per scandagliare quel sistema: nella fascia esterna dei pianeti solo silenzio, ma nella fascia interna un pianeta bluastro fece accendere diverse spie di possibilità. Fu quasi preso da fervore ed in fretta approntò con cura gli apparati di ricezione.
Scoprì che quel pianeta era una selva di onde radio e di segnali elettromagnetici: "E' fatta, qui c'è intelligenza", pensò con soddisfazione ed ansia mentre gli arrivavano i primi segnali:
- XK NN  TI KPSCO ?
- CMQ LA KS + BLL 6 T 
- WEE KE F?
Non capì quel linguaggio nonostante il traduttore universale.
Cercò allora l'aiuto del computer di bordo, ma neanche da quello giunsero risposte.
Perplesso, si sorprese a tamburellare le sue tredici dita sulla poltrona, si grattò la testa col secondo braccio di destra mentre col primo si strofinava pensoso uno dei suoi tre nasi.
 Rifece di nuovo la procedura di ascolto: ricevere filtrare decodificare...e di nuovo quella pletora marasmatica di messaggi:
- DV SL DRT KE 6 1 MRD -XK NN M DC TVB ?
-MA KE KXX DC ! CRT KE TVB !
- N T CRE
MA SI TVB 
- = TVB.....
Non riusciva a capire, tutto gli sembrava un rumore senza senso..."o forse - pensò con un brivido- era un codice di intelligenze superiori e mai conosciute, forse anche pericolose"; ma per senso del dovere registrò tutto, dicendo che magari al suo ritorno lo avrebbero preso in giro per la sua sciocca pignoleria.
Riprovò ancora a decifrare quel linguaggio...niente, solo un ronzio inintellegibile.
Rifletté solo un attimo, poi si scosse, concludendo, fra contarietà e costernazione, che  forse la tecnologia era il retaggio di una civiltà passata, visto che al presente non v'erano segni palesi di intelligenza. "Sempre così, anche in quel pianetino della cerchia interna,come le altre volte, non c'è intelligenza".
Guardò dall'oblò la bellezza del pianeta che si avvicinava, poi, in fretta, con un po' di rabbia ed una certa amarezza, spinse al massimo i motori dell'astronave che fece una rapida virata vicino a quello strano pianeta con gli anelli e sparì nella notte cosmica.
 

lunedì 31 ottobre 2016

LA VENDETTA di Fabio Calabrese

Il deserto al tramonto era uno spettacolo straordinario: gli ultimi raggi del sole traevano dalle sabbie e dalle rocce tutte le tonalità degli ocra e dei rossi, mentre nel cielo che imbruniva rapidamente si intuivano già le prime stelle.
L'uomo appoggiato al parapetto della vecchia torre si guardava intorno con espressione estatica, in quel momento si sentiva un uomo felice.
Non riusciva ancora a credere alla fortuna che aveva avuto. Lui era un italiano, uno scrittore, uno dei pochi che erano riusciti a trarre consistenti soddisfazioni da un mercato avaro come era quello della fantascienza in Italia per gli autori indigeni. Un paio di suoi romanzi erano stati pubblicati da una grossa casa editrice e avevano ottenuto un successo inaspettato, erano stati tradotti all'estero, e lui si era trovato quasi di colpo a essere qualcuno nell'empireo fantascientifico.
Poi era successo che degli amici americani conosciuti a una convention, una di quelle amicizie nate ai margini di simili manifestazioni, passando una nottata a scolare birra parlando di autori, di astronavi e di mondi esotici, lo avevano invitato a trascorrere quella vacanza dalle loro parti, nel Nevada.
Quel giorno, avevano fatto un'escursione nel deserto. Stavano rientrando a bordo del loro fuoristrada, perché era ormai sera e il crepuscolo si avvicinava, quando lui aveva scorto quella vecchia torre che sorgeva isolata in mezzo al nulla, e aveva insistito per dare un'occhiata da vicino.
Si trattava probabilmente di una costruzione dell'epoca spagnola sfuggita all'incuria del tempo. Forse aveva fatto parte di un fortilizio, o magari era stata il campanile di una chiesa, difficile da dire quando il resto dell'edificio o degli edifici di cui aveva fatto parte era scomparso, sgretolato o inghiottito dalla sabbia.
La torre stessa era un cilindro di antichi mattoni sgretolati e mal connessi, con una buia apertura alla base da cui si dipartiva una scala a chiocciola che si inerpicava nella penombra, e che si intravedeva appena, e doveva portare alla sommità della torre, o di ciò che ne rimaneva, poiché essa poteva benissimo essere stato più alta in passato, due o tre piani più sopra.
Lui aveva insistito per andare a dare un'occhiata, anche se i suoi ospiti l'avevano vivamente sconsigliato.
“E' ormai quasi buio”, avevano detto.
“Ci metterò poco”, aveva replicato lui, “un paio di minuti. Voglio solo arrivare là in cima per togliermi la curiosità”.
Si era inerpicato su per quegli scalini malagevoli quasi invisibili nell'oscurità, tenendosi quanto più possibile schiacciato contro il muro sconnesso per non mettere un piede in fallo, era incredibile quanto l'interno della torre fosse scuro e caldo, afoso; le vecchie pietre dovevano aver assorbito tutto il calore della giornata.
Quando fu di nuovo all'aperto trovandosi sul piano superiore della torre, provò una sensazione di sollievo.
Tuttavia, lo spettacolo del deserto all'imbrunire valeva ampiamente la pena di quel piccolo sforzo.
Non occorreva nemmeno un grosso sforzo di fantasia per immaginare...
Dario Tonani, appoggiato al parapetto della torre immaginò fin troppo facilmente che quel deserto fosse il luogo che la sua immaginazione aveva costruito, Mondo9, benché potesse essere ugualmente bene Arrakis, Dune o il Marte di Ray Bradbury, ma la sua mente andava in una precisa direzione, quello ERA Mondo9. A un certo punto, la percezione era così netta che alzò la testa fissando lo sguardo nel crepuscolo incombente per intravvedere il volo di un'alaquadra.
All'improvviso, provò una sensazione di freddo assolutamente incongrua. Possibile? Il parapetto su cui si era poggiato non sembrava più fatto di pietra ma di metallo. Non ebbe il tempo di stupirsene, perché un fruscio alle sue spalle lo fece voltare.
Non aveva mai visto con gli occhi l'essere che stava avanzando verso di lui, ma non avrebbe potuto avere dubbi sulla sua natura, perché l'aveva visualizzato molte volte con la mente in tutti i particolari: quella creatura che sembrava fatta di ottone eppure si muoveva con la fluidità di un essere vivente, quell'umanoide metallico nel cui viso calvo le orbite erano pozzi di oscurità profonda, eppure sembrava vedere o percepire benissimo la sua presenza con sensi sconosciuti, era fuori di dubbio un mechardionico, uno strappacuori!
Reprimendo un grido strozzato, Dario Tonani arretrò, poi si diede alla fuga, una fuga assurda, senza speranza lungo il perimetro circolare della sommità della torre. Dov'era la botola che portava alla scala a chiocciola e ai piani sottostanti? Possibile che non riuscisse più a trovarla?
Il mechardionico era ormai vicinissimo, l'aveva costretto in un angolo. Dario Tonani arretrò ancora quanto gli era possibile. Il parapetto di mattoni sconnessi della vecchia torre cedette all'improvviso, e l'uomo precipitò nel vuoto.
Mentre il suo corpo impattava duramente sul suolo sottostante, Tonani notò il ribollire della sabbia intorno a lui, tutto attorno stavano uscendo dallo strato sabbioso creature vagamente simili a enormi fiori dai petali carnosi.
“Mangiaruggine”, pensò fuggevolmente mentre la sua coscienza svaniva, “Mangiaruggine”.
Sulla sommità della torre, il mechardionico subì una trasformazione, il suo aspetto divenne più nebuloso, indistinto, riacquistò l'apparenza del fantasma che effettivamente era, il fantasma di un uomo la cui mente aveva vagato attraverso i pianeti e le stelle ma rimaneva inequivocabilmente terrestre, un astronomo, il fantasma di un uomo che in vita aveva portato il nome di Clyde Tombaugh.
L'anima di un uomo dopo la scomparsa del corpo fisico, talvolta tarda a raggiungere il suo destino ultraterreno: un compito, un desiderio, una vendetta da compiere, possono ancora legarla al piano materiale.
Per tutta la sua vita, Clyde era stato fiero di essere stato lo scopritore di Plutone, il nono pianeta del sistema solare, ma poco dopo la sua morte era arrivato lo smacco: Plutone era stato declassato a pianeta nano, e i mondi importanti che orbitavano intorno al sole erano tornati a essere otto. Si era accorto che una parte importante nell'influenzare la comunità scientifica a prendere quella scellerata decisione, l'aveva avuta un libro di fantascienza scritto da un autore italiano dove si parlava di un nono mondo, un Mondo9 alternativo a Plutone, e benché si trattasse di null'altro che di una costruzione di fantasia, il suo impatto psicologico l'aveva avuto.
Leggendo nella mente di Dario Tonani morente, Clyde Tombaugh si rese conto che la sua vendetta non era ancora completa. C'era un altro uomo che aveva dato concretezza a Mondo9 col suo lavoro di illustratore, aveva fatto sì che tanti visualizzassero quella fantasticheria come se fosse stata una realtà.
“Franco Brambilla”, pensò, “adesso tocca a te”.