venerdì 27 gennaio 2017

LA DONNA VELATA DI NERO di Giuseppe C. Budetta

La donna velata, o meglio, da come mi sembrava nel sogno, la giovane ammantata con una specie di burka nero, mi appariva come un idolo di altri tempi. Al suo cospetto, avevo prima un senso di terrore e poi una profonda riverenza, un timoroso assoggettamento della mia persona, una sensazione che avevo da bambino in chiesa, davanti alle imponenti statue dei santi benedicenti. Diradandosi la nebbia, l’immagine della fanciulla era affiancata da una casetta di campagna e da una quercia centenaria. Da sveglio, mi sembrò che la casetta con la gigantesca quercia fosse stata simile a quella lasciatami in eredità dagli avi. La casetta a due piani, con ampio terrazzo verso Salerno, sorgeva su una collinetta non distante da Paestum. Avevo capito che era quello l’edificio decadente da sfondo alla fanciulla che mi visitava nei sogni, profferendo con delicata voce sempre le stesse frasi che in italiano vogliono dire: Sono l’ombra di te. Sono la nera Chera e non ad altri, ma a te voglio dire queste cose: temo che non sfuggirai al pericolo.
 Eγώ εμί τν σκιάν σο. Eγώ εμί τν Κρα μέλαιναν κα οκ  λλολλοις ‘αλλ σο τατα λέγω: Φοβέω μ κ φευγόσεις το κινδύνου.
   Quale pericolo mai incombeva su di me? Perché al risveglio ricordavo le frasi minacciose?
Quelle frasi nascevano forse dalle profondità del cervello? oppure prendevano forma dal buio della sfera inconscia? Avevo studiato il greco classico ai tempi del liceo e poteva essere che a livello inconscio me lo ricordassi. In me, abitava forse un altro essere che cercava di emergere alla vita?
 Cercavo di non pensarci, ripetendomi che era un sogno. Uno di quei sogni ricorrenti che dopo qualche mese svaniscono dalla mente, così come arrivati. Nella Teogonia, Esiodo dice che la Chera era nata per partenogenesi dalla Notte. Nelle mie notti tetre, affiorava dall’io onirico la fanciulla velata. Quella fanciulla voleva simboleggiare la notte cupa in cui la mia esistenza si dimenava?  Lei la personificazione della mia solitudine? Su un quotidiano, lessi la frase che Jung aveva fatto scolpire sulla porta di casa: Vocatus atque non vocatus deus aderit.
E’ un antico oracolo di Delfi, tradotto in latino da Erasmo di Rotterdam: Invocato o meno, il divino sarà presente.
Nei primi tempi, non mi preoccupai del sogno ricorrente e di quelle frasi che come una spada di Damocle mi pendevano sul collo. Andavo regolarmente in facoltà e continuavo le ricerche d’immunoistochimica coi dottorandi. Il ricordo dell’incubo notturno riemergeva nei momenti di minore concentrazione sul lavoro, quando volevo riposarmi con la mente, oppure subito dopo la lezione in aula. Più volte stavo per bloccarmi in aula davanti alla platea degli studenti, avendo ravvisato nel volto di una ragazza coi capelli neri e le lunghe sopracciglia ad arco quello della donna velata che mi appariva negl’incubi notturni. Tempo dopo, sbirciando dalla finestra dello studio in facoltà, vidi la studentessa che in aula aveva attirato la mia attenzione. Una bella ragazza dai capelli lisci, nero corvini, divisi in due bande e tenuti stretti alla nuca da un tupè. Camminava con lo zaino sulle spalle e la mano nella mano affianco al ragazzo.
Guardando meglio, conobbi il dott. Rinaldi. Era lui il fidanzato. Dissi bravo il Rinaldi, complimenti. L’unico nesso tra la donna dei miei incubi e la fidanzata del Rinaldi che stava passando per il cortile della facoltà era la mia mente stressata, in preda agl’incubi notturni. Quella studentessa aveva una forte rassomiglianza con la donna velata che nel sogno pronunciava contro di me frasi minacciose. Oppure ero io a vederne la stretta rassomiglianza. Mentre la osservavo nel cortile della facoltà, si era girata in direzione della mia finestra e forse aveva visto che la osservavo. Scattai subito indietro, chiudendo la tendina.     
Più cercavo di non pensare all’incubo notturno e più ci rimuginavo. Cercai di spiegarmene il significato. Speravo che una volta inquadrato l’evento, la paura mi sarebbe scemata e con essa, quei sogni terrificanti. Heidegger ne era convinto: l’Uomo è una mescolanza di manifestazione e di nascondimento.
La parte recondita della mia psiche emergeva nell’incubo notturno col volto velato di una bella dea pagana, ammonendomi di un addiveniente pericolo. Oppure, come diceva Jung, l’apparizione della fanciulla era dovuta al fatto che la dimensione immateriale della realtà del mondo circostante si rivela nella sua autenticità con la trascendenza divina. La metafisica è dunque reale quanto la fisica? Un passo dell’Iliade accrebbe il sospetto. Prima di addormentarmi, mi ero messo a leggere alcuni versi dell’Iliade di Omero:
L’auree bilance sollevò nel cielo
il gran Padre, e due Chere entro vi pose
di mortal senno eterno: una di Achille,
l’altra di Ettorre: le librò nel mezzo,
e del duce troiano il fatal giorno
cadde, e ver l’Orco declinò. Dolente
allor Febo lasciollo in abbandono.
Per gli antichi, il destino di ognuno sarebbe insito in statue simboliche, custodite presso il Padre Giove. Frantumandosi una di quelle statue, la vita dell’eroe la cui immagine a quella statua corrispondeva, si spezzava. Poteva essere quello il pericolo incombente su di me? Un mio collega, un neuropsichiatra della II Facoltà di Medicina di Roma e con vari incarichi alla Tuscia di Viterbo, mi spiegò che vediamo la realtà del mondo esterno con computazioni inconsce, effettuate dal cervello, di volta in volta. L’infinità dei calcoli computazionali all’interno del nostro cervello è la trasduzione immediata del cosiddetto mondo sensibile. Sapevo queste cose perché le insegnavo agli studenti, ma il collega neuro-psichiatra le affrontava nella pratica, avendo diversi incarichi anche negli ospedali e numerosi pazienti da curare. Mi disse che alcuni dei suoi pazienti soffrivano di disturbi di paura e di ansia ed avevano delle connessioni alterate tra la corteccia pre-frontale ed il Nucleus accumbens. Avrei dovuto dunque farmi fare una TAC al cervello?”
Gli chiesi, ma senza far capire che ne ero interessato in modo diretto, glielo chiesi come un quesito fuoriuscito dalle mie ricerche scientifiche:
“Nel sonno, alcune aree cerebrali agiscono sulla bidimensionalità dei ricordi?”
Mi disse che nel sonno viene a mancare la terza dimensione, propria del mondo reale e per questo il cervello comincia ad elaborare immagini simboliche, quelle che costellano i nostri sogni. Come il collega faceva intendere, il sogno contiene rappresentazioni che nel mio caso specifico, sarebbero state condizionate da una intensa attività dell’amigdala, la parte profonda del cervello correlata alle sensazioni negative della paura. Inoltre, potevano esserci connessioni difettose tra corteccia pre-frontale e Nucleus accumbans. Gli chiesi: “A che sono dovuti i sogni ricorrenti?”
“Ne soffri?”
Dovevo confidarmi con qualcuno che ne sapesse più di me dal punto di vista scientifico:
“Vedo una donna che mi si para davanti…una donna velata di nero.”
Fu sbrigativo. Parandosi sotto l’architrave del suo studio come una sentinella, disse:
I sogni ripetuti possono significare l’impossibilità a svolgere un compito, un’azione superiore alle proprie possibilità, la presenza di un ostacolo, più o meno esplicito.”
Avevamo fatto il liceo classico assieme e filone con le rispettive fidanzate. Perciò in onore dei vecchi tempi, fu più esplicito:
“C’è qualcuno che ti mette i bastoni tra le ruote in dipartimento?”
“Sto divorziando.”
“Può essere questo. Devi scoparti qualcuna…oppure…”
“Oppure?”
“Giocati i numeri al lotto. Coi sogni ricorrenti si vince, così dicono.”
 “Ciao.”
Mi prendeva in giro coi numeri del lotto. Non m’invitò ad entrare e mi chiuse la porta in faccia per la fretta. La sua vita era affastellata dal lavoro. Non mi offesi per la porta chiusami in faccia. Lo faceva con tutti, forse perché aveva sempre fretta e non voleva perdere tempo con lunghe discussioni e spiegazioni. Non avrei potuto fornirgli altri particolari: la donna velata, la frase minacciosa in greco antico, il terrore che mi attanagliava quando la donna velata mi appariva regolarmente ogni notte in sogno…la sensazione che la donna velata esistesse per davvero, ma non nei miei incubi.
Come neuropsichiatra, poteva spargere la voce in giro che ero mezzo pazzo o del tutto pazzo, nuocendo alla mia già traballante reputazione.
Lobi frontali, problemi d’interconnessione tra cellule nervose. Input cerebrali aberranti. Da lì si originavano i miei incubi? Tra me e me, ripetevo le nozioni che da anni spiegavo agli studenti del mio corso: I lobi frontali sono stati gli ultimi a svilupparsi nell’evoluzione del cervello umano e ne costituiscono più del 40% del volume totale. I lobi frontali sono anche gli ultimi a connettersi col resto della materia cerebrale, nell’individuo giovane. Di fatto, tale connessione si completa intorno al ventesimo anno di vita. Nel maschio, la maggiore ampiezza ed asimmetria dei lobi frontali potrebbe incrementare la predisposizione alla malattia schizofrenica, nel senso che uno squilibrio dei mediatori chimici, o di circolazione sanguigna, o un alterato rapporto sostanza grigia/bianca in questa regione anatomica, troverebbero condizioni di amplificazione patologica negli asimmetrici parametri morfo - strutturali.
…Parametri morfo-strutturali non congeniti alla realtà…predisposizione alla malattia schizofrenica…lobi frontali difettosi…cos’altro mai poteva essere?
 

martedì 10 gennaio 2017

IL COLORE DEL CIELO di Teresa Regna

But the fool on the hill
sees the sun going down
and the eyes in his head
see the world spinning round.

Paul McCartney

 
Si chiamava Josh, ma per tutti era semplicemente ‘lo scemo’. Viveva da solo, in una casa sulla collina. E possedeva il colore del cielo. Quello autentico, non quello che veniva erogato dalla cupola che imprigionava il villaggio, isolandolo dal resto del mondo.
Gli altri vedevano le stagioni simulate, l’alternarsi senza fine di giorni e notti di uguale durata, lo splendore del sole o le nubi cariche di pioggia, a seconda delle necessità del raccolto e della comunità. Lui, lo scemo del villaggio, poteva godere lo spettacolo del colore del cielo, di quel cielo che sovrastava la cupola, che giganteggiava su una terra ammalata per colpa della follia dell’umanità. Il vero cielo, col suo vero colore.
“’Giorno”, biascicò, mentre insinuava la sua notevole mole oltre la porta a vetri dell’emporio.
Due donne erano intente ad osservare la mercanzia, mentre dietro il banco troneggiava la padrona del negozio, un donnone più largo che alto. Nessuna di esse si curò di rispondere al saluto del giovane.
Attese che le clienti che lo precedevano terminassero i loro acquisti, poi si avvicinò al banco con la sua andatura ciondolante, indolente come i pensieri che gli attraversavano la mente. “Vorrei del sale”, dichiarò.
“È razionato”, gli fece notare, in tono sgarbato, la proprietaria dell’emporio. Le mani sui fianchi, lo fissava con l’espressione che si assume, di solito, con gli insetti molesti: un misto di disgusto, repulsione, e fascinazione per l’orrido.
“Lo so”, sillabò, lentamente, Josh. “Mi occorre lo stesso. Per cucinare”.
La donna prelevò un pacchetto di carta bianca, lo posò sulla bilancia vecchio stile, grugnì qualcosa di inintelligibile, e ne tolse un cucchiaino. Infine, porse l’involto al giovane che la fronteggiava, storcendo il labbro con disapprovazione. Se fosse stata lei a scrivere le leggi che governavano il villaggio, avrebbe gettato quel rifiuto umano fuori dalla cupola, nell’atmosfera carica di veleni radioattivi, sotto il vero cielo il cui simulacro ostentava come un trofeo. Era soltanto un peso morto, un inutile, stupido mangiapane a ufo, che consumava le razioni che sarebbe stato più proficuo destinare a un distinto padre di famiglia.
Josh gettò la moneta che serviva a pagare il sale sul banco, esprimendo con quel gesto lo stesso disprezzo di cui era fatto oggetto dalla proprietaria del negozio. Il tintinnio venne fermato dalla mano aperta della donna, nello stesso istante in cui il cliente indesiderato imboccava l’uscita.
Anche se era consapevole di non essere molto intelligente, il giovane non era stupido come tutti i suoi compaesani credevano: la sua mente faticava a comprendere alcuni concetti, e il suo corpo faticava a mettersi in moto. A volte, la mente e il corpo non riuscivano ad andare daccordo, per cui movimenti o pensieri inconsulti lo lasciavano interdetto, incapace di spiegarsene la ragione. Però sapeva alcune cose che gli altri ignoravano, e studiava il colore del cielo per imparare a riconoscerlo in ogni momento della giornata.
Leggeva molto. Con calma, un paragrafo al giorno, cercava di imparare quanto più poteva dai libri lasciatigli in eredità dai genitori. Insieme al colore del cielo e alla casa sulla collina. Erano due scienziati, molto intelligenti e altrettanto buoni. Gli avevano spiegato che la sua lentezza era causata da una malattia, incurabile, che l’aveva colpito da bambino. Peccato che fossero morti entrambi durante la prima fase della guerra: gli mancavano molto.
Era sempre solo, Josh. O per la maggior parte del tempo. Leggeva, contemplava il cielo, parlava con gli animali. Possedeva due gatti e un cane: i suoi unici amici. Non li aveva mai legati, come facevano tutti per evitare che i loro animali scappassero, né aveva mai pensato di cibarsene, come facevano alcuni quando la carestia arrivava a flagellare il villaggio. Avrebbe preferito morire di fame, piuttosto.
“Dog!”, chiamò, indirizzando la voce possente verso l’unico boschetto ancora intatto, situato non lontano dalla sua casa. Un pastore tedesco più basso del normale arrivò, di corsa, e sedette sull’erba rada, di fronte al giovane. “Bravo”, lo lodò, accarezzando la testa morbida, e fissando lo sguardo negli occhi intelligenti dal cane. Sedette sulla vecchia panca che aveva recuperato da un cassonetto, e pose sulle ginocchia una sorta di specchio dallo spessore sottilissimo.
“Fammi compagnia mentre guardo il colore del cielo”, disse. Inclinò l’oggetto in modo che la luce del sole artificiale potesse colpirlo, e premette un piccolo pulsante posto sul bordo. Sulla superficie liscia cominciò a formarsi un’immagine: nuvole rosate, che si rincorrevano lungo una via celeste cupo, attraversate da alcuni raggi di luce violetta.
 “Lì fuori è il tramonto”, spiegò Josh. Il cane emise un sibilo prolungato, come se avesse capito l’affermazione del suo padrone. Un lampo di luce più intensa degli altri si propagò lungo l’immagine del cielo, mentre la notte scendeva ad ammantare la terra. “È bellissimo!”, esclamò il giovane. “Cat, Cattie, venite a vedere anche voi”, chiamò a raccolta i gatti. Un maschio dal pelo multicolore e una femmina tigrata, arancione con la gola bianca, accorsero al suo richiamo. Erano abituati a quel rituale, pertanto salirono sulla panca e allungarono i loro musi fino a sfiorare il portentoso oggetto.
“È ora di preparare la cena”, soggiunse, dopo un po’. Spinse ancora una volta il pulsante seminascosto, e l’immagine del cielo scomparve: la superficie divenne translucida come un comune pezzo di vetro. “Forse pioverà”, borbottò tra sé, mentre rientrava in casa. “Pioggia acida, ma vera”.
Qualche giorno più tardi, mentre il sole artificiale splendeva alto nel cielo della cupola, Josh prese il suo oggetto preferito, e sedette sulla panca, immobile e guardingo. Temeva sempre che qualcuno tentasse di rubarglielo, pertanto lo custodiva come il più caro dei tesori.
Appena lo schermo ultrapiatto venne acceso, il giovane capì che qualcosa non andava per il verso giusto: alcuni puntini scuri attraversavano la coltre di nuvole grigie che ricopriva il cielo. Piccoli oggetti neri che entravano e uscivano dalla nubi, come se fossero impegnati in un colossale torneo di nascondino.
D’improvviso, sia il cielo vero sullo schermo che quello finto che sovrastava la collina cominciarono a roteare vorticosamente. La terra oggi gira più in fretta del solito, pensò Josh per una frazione di secondo. Poi altri pensieri gli affollarono la mente, turbinando come volatili impazziti. E seppe cosa stava per accadere.
Abbandonò la sua eredità sulla panca, incustodita, e corse a perdifiato verso il villaggio. L’aria entrava e usciva dai suoi polmoni a velocità spaventosa, e le sue gambe si muovevano tanto in fretta che gli pareva di avere delle ruote al posto dei piedi.
“Siamo in pericolo”, urlò, concentrando il poco fiato che ancora gli rimaneva in due sole frasi. “Ci attaccano”. Si fermò, ansimando come se avesse appena concluso la maratona, nella piazza principale del villaggio. Non era abituato a correre, e dovette attendere che il cuore smettesse di battere all’impazzata prima di poter ripetere l’avvertimento al gruppetto di persone che chiacchieravano del più e del meno, inconsapevoli del pericolo mortale che incombeva su di loro. “Dovete chiamare il sindaco”, esalò, quasi senza fiato. “Bisogna attivare lo scudo”.
Alcuni sguardi perplessi, insieme ad altri indifferenti, si posarono su di lui. Nessuno era disposto a prestar fede alle sue parole.
“La cupola è il nostro scudo”, affermò una donna anziana, puntando verso l’alto il dito teso.
“Non serve a nulla contro un attacco aereo”, le fece notare Josh. “Dobbiamo attivare lo scudo spaziale”.

“La guerra è finita da un pezzo”, commentò un uomo poco più vecchio di lui. “Che sciocchezze cerchi di propinarci?”.
Il giovane morse le labbra per non rispondergli a tono, incamminandosi subito dopo verso la casa del sindaco. L’uomo, basso e quasi completamente pelato, era intento a zappare il suo orticello, e non interruppe il lavoro nemmeno per un istante.
“Stiamo per essere attaccati”, lo avvertì Josh. “Ho visto gli aerei sul mio schermo”.
“Li avrai sognati, ragazzo”, borbottò il sindaco.
“Soltanto io posso vedere cosa succede al di sopra della cupola”, incalzò il giovane. Non intendeva arrendersi di fronte all’indifferenza dei compaesani, ma non sapeva come far capire all’interlocutore che diceva la verità.
“Lo so, possiedi il colore del cielo”, lo canzonò l’uomo, mentre continuava a dissodare il terreno con gesti misurati e precisi.
“Mio padre....”, riprese Josh.
Venne interrotto dal tono seccato del sindaco. “Era un grande scienziato. Invece tu sei uno scemo ancora più grande”.
Ferito da quell’insulto gratuito, il giovane girò sui tacchi. “Volevo solo essere d’aiuto”, sbottò, prima di andarsene. “Ma voi meritate quello che sta per succedere. Tutti!”.
Percorse la strada che conduceva alla collina a passo svelto, ma senza correre: non si deve aver fretta quando si è in procinto di affrontare l’inevitabile. Arrivato a casa, recuperò il suo tesoro dalla panca sulla quale l’aveva lasciato, e chiamò gli animali. “Dog, Cat, Cattie, andiamo a rifugiarci in cantina”, ordinò, in tono perentorio. “Chissà se servirà a qualcosa”, aggiunse, a mezza voce.
Lo schermo che mostrava il colore del cielo era rimasto acceso; Josh gli diede un’ultima occhiata prima di entrare in casa, seguito a ruota dal cane e dai gatti. Una pioggia piuttosto intensa inondava la terra, mentre le sagome degli aerei nemici divenivano sempre più chiare, grosse e minacciose. Oltre alla terra, anche il cielo era malato, rifletté il giovane.
Sceso in cantina, si accucciò sotto un vecchio tavolo che occupava quasi per intero una parete, e abbracciò Dog, in attesa dell’esplosione che avrebbe distrutto la cupola. Cat e Cattie si sistemarono accanto alle gambe del tavolo, uno per ciascun lato, come due sentinelle pronte a difendere il loro territorio dall’invasione. Quando il primo boato squarciò il silenzio, però, anche i gatti si avvicinarono al padrone, in cerca di conforto.
“State buoni, tutti e tre”, intimò Josh. “Presto sarà tutto finito, in un modo o nell’altro”. Osservò con la coda dell’occhio lo schermo che aveva deposto accanto a sé: nonostante fosse ancora acceso, era buio come una notte senza stelle. Nemmeno il suo oggetto preferito voleva vedere il colore del cielo, in quel momento.
La seconda esplosione fu seguita da un rumore di vetri infranti e di mobilia che precipita. La terza non venne udita dal giovane: il tavolo sotto il quale aveva cercato rifugio era caduto, colpendolo alla testa. Quando riprese i sensi, un silenzio irreale lo circondava. E tre lingue raspose lo leccavano sul volto sporco di polvere.
Si rialzò a fatica, tastando la ferita dalla quale il sangue continuava a sgorgare. Dog gli leccò una mano, con dolcezza. “Sei un bravo infermiere”, gli sussurrò. “Ma ora che ce l’abbiamo fatta devo trovare un pezzo di stoffa per fasciarmi la testa”.
La porta della cantina era bloccata: qualcosa di molto pesante impediva a Josh di aprirla. Provò a sfondarla con un calcio, ma non ottenne nessun risultato, quindi afferrò una corta asta di ferro che giaceva in un angolo e si gettò contro la porta con tutto il suo peso. Uno spiraglio si aprì, e i gatti si precipitarono attraverso di esso. Facendo leva a poco a poco con l’asta, riuscì ad ingrandire lo spiraglio fino al punto da poter passare al di là della porta. Dog lo seguì, guaendo tutta la sua disperazione. Un fazzoletto sporco, prelevato da quello che fino a pochi attimi prima era stato un cassetto, venne legato sulla fronte, a mo’ di fasciatura.

La casa era a pezzi: il tetto era crollato, e i suoi resti erano sparsi dappertutto, le mura esterne erano alte soltanto un paio di palmi, mentre quelle interne non esistevano più, polverizzate dall’esplosione. I mobili erano ridotti ad un cumulo di rottami inservibili, e dei soprammobili non esisteva un frammento più grande di un’unghia.
Josh cominciò a percorrere ciò che rimaneva della sua casa, e si rese conto che soltanto il letto era quasi intatto, poiché l’armadio che si trovava alla sua sinistra era stato catapultato all’esterno, nel punto in cui prima c’era la finestra. La libreria era crollata, e i libri che il giovane tanto amava giacevano scomposti sul pavimento, ricoperti dai resti dei mobili e dalla polvere che si era posata sopra ogni cosa.
La scena apocalittica, che avrebbe sconvolto chiunque, non impressionò poi molto Josh. “Porterò il letto in cantina”, annunciò agli animali, che annusavano qui è là, apparentemente più spaesati del padrone. “D’ora in poi, abiteremo di sotto”.
Appena ebbe pronunciato questa frase, scese a precipizio le scale che portavano in cantina: in preda alla preoccupazione per la propria incolumità, aveva dimenticato di portare con sé lo schermo, e persino di controllare se era ancora in grado di funzionare. Premette freneticamente il pulsante di accensione, più volte, ma l’oggetto rimase nero: anche il suo tesoro era stato danneggiato dall’esplosione.
Presto, molto presto, gli effetti della radioattività si sarebbero fatti sentire. Dopo, la morte l’avrebbe ghermito, permettendogli di ricongiungersi alla madre e al padre. Josh lo sapeva, ma non aveva intenzione di disperarsi per questo: non c’era nulla che potesse fare per rimediare al disastro, o per salvarsi. Accettava il suo destino, senza recriminare o piangerci su. La guerra era proprio finita, ora. Almeno per lui.
Una pioggia sottile cadeva dal cielo. Pioggia acida, ma vera. Posò a terra lo strumento che gli aveva allietato i tanti mesi trascorsi dalla morte dei genitori, e si rivolse agli animali, che continuavano ad aggirarsi, sconsolati, tra le macerie della casa. “Tra qualche giorno moriremo”, affermò, con il tono lento e solenne di chi sta annunciando un evento ineluttabile. “Però staremo insieme, fino alla fine”.
Sollevò gli occhi verso il blu cupo che lo sovrastava, aggiungendo “E fino a quel giorno possiederemo ancora il colore del cielo”. Mentre gratificava di una carezza fugace Dog, Cat e Cattie, concluse “Soltanto noi, in tutta la terra”.

 

martedì 3 gennaio 2017

LA CERIMONIA di Fabio Calabrese

Se, oltre che il veterinario di famiglia, non fossi amico di vecchissima data di Buck e Bibi, non avrei accettato l'invito. Certe cose mi disturbano. Vedete, io penso che gli umani sono “solo umani”, ma proprio in quanto umani, hanno una loro dignità che noi non rispettiamo di certo quando li trasformiamo in caricature di noi stessi.
Quando sono arrivato a casa di Buck e Bibi, Paolo e Chiara mi sono subito corsi incontro facendomi festa alla maniera degli umani, buttandomi le braccia al collo e cercando di baciarmi. Sono creature molto affettuose, e io sono il loro medico da anni.
Solo dopo che Buck è intervenuto con energia per riportare l'ordine, ho cominciato a focalizzare meglio la situazione.
Chiara era stata vestita con una tutina bianca, i capelli lunghi le erano stati accuratamente pettinati, e sulla testa le era stato fissato un velo con dei fermagli. La tutina che era stata messa a Paolo, invece, era nera e sul davanti aveva una pettorina che simulava lo sparato di uno smoking col disegno di una cravatta.
I capelli di Paolo erano stati tagliati corti, e la barba, sapete che di solito i maschi umani hanno questa pelosità che esce dalle guance e dal mento e forma come un cespuglio o una spazzola; bene, era stata ridotta a un filo sottile che gli incorniciava la parte inferiore della faccia, era una cosa strana ma in un certo senso elegante.
La tutina bianca aderente di Chiara lasciava vedere perfettamente la rotondità dell'addome. Sapevo che sarebbe toccato a me occuparmene. Nelle femmine umane, il canale del parto è molto stretto rispetto alla testa del nascituro, a paragone delle femmine di altre specie, e i parti sono difficili e dolorosi. Per fortuna, le gravidanze umane sono anche lunghe, mancavano ancora diversi mesi e avevo tutto il tempo per preparare l'occorrente.
Ora che mi guardavo in giro, vedevo che la casa era affollata: c'erano tre o quattro ospiti che non conoscevo, amici di Buck e Bibi, e un paio di umani evidentemente di proprietà di questi ultimi.
I padroni di casa ci fecero accomodare nel salotto buono, la stanza più ampia della casa che per l'occasione era stata attrezzata a locale per la cerimonia. In fondo alla stanza era stato piazzato un tavolo ricoperto da una lunga tovaglia bianca che ricadeva fino a terra.
Al centro del tavolo era stato collocato un grosso libro su di un leggio, e ai lati due candelieri con le candele accese, era insomma la passabile imitazione di un altare.
Paolo e Chiara furono fatti sedere davanti all'altare improvvisato, dietro il quale Buck prese posto come officiante. Bibi si posizionò alle spalle dei due “sposi”.
Si, lo so, l'idea di un matrimonio fra umani è ridicola, ma i miei ospiti prendevano la cosa molto sul serio.
Buck si mise a leggere la formula, sempre quella che si tramanda da tempo immemorabile, e nonostante il grottesco della circostanza, non potei fare a meno di ammirarne una volta di più la bellezza suggestiva, la forza poetica.
“Vuoi tu, Paolo, prendere in moglie la qui presente Chiara nel bene e nel male, in ricchezza e povertà, in salute e malattia, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi?”
Bibi rispose di si per Paolo, poi fece la stessa cosa per Chiara quando la formula fu ripetuta per lei.
Buck concluse la cerimonia dichiarando Paolo e Chiara marito e moglie.
Devo dire che i due umani se ne stettero buoni e tranquilli per tutta la cerimonia. Naturalmente, essa per loro non aveva nessun significato, ma erano contenti della soddisfazione dei loro padroni. Gli umani sono creature molto sensibili.
Fu portata la torta: era su tre piani, quello superiore, più piccolo, era dolce per gli umani, gli altri due, di pasticcio di carne, per noi.
Buck mise il coltello in mano a Paolo – naturalmente si trattava di un coltello-spatola non affilato – e lo guidò a tagliare la torta. Dovette guidare la sua mano verso il piano più alto; gli umani, non bisogna dimenticarlo, hanno un olfatto pessimo, ma poi se l'è cavata egregiamente a tagliare le fette. Gli umani sono creature intelligenti e con una notevole manualità, se ben addestrati, possono fare cose incredibili.
A questo punto, sono intervenuto e ho raccomandato a Buck e Bibi di evitare che Paolo e Chiara si abbuffassero.
Questa è una cosa che sto ripetendo da anni a tutti i miei clienti. Il fatto è che molti di loro hanno idee vaghe sulle necessità alimentari degli umani. Gli umani sono golosi di dolci e molti tendono a rimpinzarli, ma questa è una cosa pessima. Sebbene gli umani riescano a metabolizzare gli zuccheri, in quantità eccessive sono molto dannosi, specialmente se si tratta di umani di casa che fanno una vita sedentaria.
Molti hanno l'abitudine di dare agli umani le stesse cose che mangiano loro, o magari i loro avanzi.
Di per sé il nostro cibo non fa male agli umani, ma non bisogna esagerare e occorre prudenza, non dimentichiamo che gli umani hanno un olfatto poco efficiente, e fanno fatica a capire se la carne è avariata.
Soprattutto, molti dimenticano che gli umani sono onnivori e hanno bisogno di una dieta variata. Occorre dare loro anche cereali, legumi, frutta, verdure.
Quando me ne sono andato, ero in preda a sentimenti contrastanti. In un certo senso si può dire che era stata una bella festa, ma mi aveva messo in imbarazzo.
Credo che sia naturale in tutti i proprietari di umani una certa tendenza a caninizzarli, ma insomma si dovrebbe quanto meno cercare di evitare le esagerazioni.

domenica 11 dicembre 2016

FANTAVALTELLINA di Giuseppe Novellino

     Nei primi giorni del giugno scorso, Giuseppe Garibaldi è uscito dalla sua statua che dà il nome alla bella piazza di cui tutti i sondriesi sono orgogliosi. E se ne è andato in giro per le vie del centro, guardando le vetrine, passando attraverso i corpi della gente, in una calda serata di inizio estate. Qualcuno l’ha visto, ovviamente, altrimenti non sarei qui a parlarne. L’ectoplasma dello storico personaggio avrebbe fatto anche una puntatina in banca, così, tanto per curiosare sui comportamenti finanziari dell’attuale società. Lui, certo, di soldi non aveva bisogno.     Poi è rientrato nella statua, dando, a detta di qualcuno, appuntamento per il prossimo anno.       Mi sono imbattuto nella notizia solo qualche giorno fa, quando ho visto un servizio della Tele locale. Si intervistavano tre esperti di parapsicologia, arrivati a Sondrio in veste di acchiappa fantasmi (con tanto di camice bianco, dico sul serio), non solo con l’intento di documentarsi sulla recente apparizione dell’Eroe dei Due Mondi, ma anche con l’idea di verificare l’avvistamento, nei nostri boschi, di due gnomi e di un unicorno.     La Valtellina sarebbe dunque infestata da fantasmi e da creature mitologiche. Dopo gli UFO della Valmalenco, assistiamo ancora al verificarsi di fenomeni che più che estranei definirei stranianti. Prima, con quegli incontri ravvicinati del solito tipo, eravamo piombati in un film di Spielberg; oggi, invece, siamo in piena fantasy.     Questa nostra Fantavaltellina mi lascia un po’ stordito. Va bene, un po’ sono orgoglioso di sapere che la nostra città ha un fantasma, e che razza di fantasma! Ma poi mi chiedo quale sia il significato del propagarsi di simili dicerie.     Non credo che il motivo sia quello di distogliere l’attenzione da problemi più concreti e più gravi. Infatti, chi si lascerebbe distrarre dall’idea che Giuseppe Garibaldi vada a fare un giretto nella sede della Banca Popolare, oppure che un unicorno pascoli nei boschi già pieni di cinghiali e di cervi? Come i dischi volanti della Val Malenco non sono riusciti a scuoterci più di tanto, così questi spiritelli fuori luogo e fuori tempo non possono esercitare un grande potere su di noi. Siamo nell’era del computer, dello smartphone, della pley-station, del dolby stereo. Cosa volete che possano fare degli gnomi, degli unicorni e dei fantasmi d’ottocentesca provenienza, e per lo più “reali”. E meno che meno verrebbero impressionati i bambini, i quali, vedendo il famoso cavallo monocornuto, scrollerebbero le spalle e direbbero semplicemente: – Figo, è tale e quale a quello del mio videogioco.     La ragione, secondo me, va ritrovata nella mente di tanti adulti che non sanno più leggere un buon romanzo di fantascienza o una novella fantasy. Eppure di questo hanno legittimamente bisogno.     I tre acchiappa fantasmi di cui sopra forse lo sanno e magari lucrano proprio su tale carenza.

    

martedì 29 novembre 2016

Il Guardiano della sabbia Antonio Ognibene

Il primo uomo su Marte potresti essere tu.”
Geremia Slasken faticò ad aprire le palpebre. Si stropicciò gli occhi, e con l'unghia del mignolo tolse le secrezioni dagli angoli.
Si mise a sedere sul letto e spense la suoneria melodica del vecchio smartphone.
Guardò l’immagine di sfondo sul vetro crepato: una ragazza sorridente che abbracciava un bambino dai boccoli castani.
 Aiutandosi con le mani, mise le gambe fuori dal letto.
Punto di arrivo: Marte, con biglietto di sola andata. Geremia Slasken, sessantenne di Borgolupo ancora con un fisico da atleta, è l’unico pensionato tra i cento aspiranti coloni selezionati in tutto il mondo, per l'audace impresa di colonizzare il Pianeta Rosso. Lo ha saputo Lunedì scorso, mentre andava a ritirare la pensione.
─ Un giorno che non dimenticherò mai ─ racconta al “Corriere Nazionale”.
─ Se me l’aspettavo? In realtà ero un po' scettico, all'inizio c’erano oltre duecentomila candidati, gente quasi tutta diplomata o laureata. Alla fine siamo passati in cento. Posso ormai dire di aver agguantato il mio sogno. Manca l'ultima selezione. ─ ridacchia ─ Chi l'avrebbe mai detto che su Marte sarebbe servito un faro.
Già, perché Geremia ha un attestato di farista, conseguito nel lontano 1970. Prima del pensionamento gestiva un faro della Marina Militare.
I colori delle luci dell'alba marziana non avevano ancora la forza di entrare dalle fessure dell'avvolgibile.
Ancora nella penombra, l’uomo attraversò la stanza da letto strisciando i piedi fino all'attaccapanni da cui prese un paio di jeans e una camicia bianca. Riusciva a distinguerli solo strizzando gli occhi.
La grande ambizione di Geremia si chiama Mars Destination, la missione multinazionale che ha l’obiettivo di creare una colonia umana permanente di ventiquattro persone su Marte. Ma c'è un dettaglio da non sottovalutare: non è contemplato il biglietto di ritorno.
Già, il viaggio prevede la sola andata. E vabè.
─ Al momento mancano i finanziamenti e la tecnologia per il ritorno, ma non è detto che tra una decina di anni le cose non si saranno evolute. Spero di esserci ancora. ─ dice scherzando.
Entrò in corridoio, poi in bagno.
Urinò in un contenitore a tenuta stagna, rabboccandolo. Il congegno era collegato alle tubazioni che terminavano in un dispositivo ATU-O2. Questa apparecchiatura consentiva di trasformare le minzioni dentro un biogas, che serviva per farsi docce calde e cucinare. I pannelli solari erano riservati soltanto per azionare il faro e le strumentazioni della base. Era una procedura che lo faceva sempre sorridere, perché pensava al problemino alla prostata.
Non hai paura di rimanere bloccato lassù?
─ Ci ho pensato spesso, sai? Ma la consapevolezza che qui sulla Terra non ho più nessuno, mi ha spinto a prendere la decisione. Eppoi il mio spirito di avventura ha fatto il resto.
─ Comunque saremo addestrati su come affrontare eventuali crolli psicologici. Potranno capitare situazioni parecchio difficili, dovremo essere pronti a coalizzarci per sopravvivere.
─ Mi aspettano un po' di anni di preparazione intensiva, con prove fisiche, psicologiche e attitudinali, prima di partire con lo scaglione iniziale di quattro astronauti nel 2025.
Sei già così sicuro di far parte dei ventiquattro coloni?
Sì, perché al momento siamo solo in due a possedere i requisiti per dirigere un faro: io e il mio vice, che è più giovane. Lui però avrà altre mansioni, mi sostituirà solo in caso di malattia o di... Mi tocco, ah,ah.
Girò la maniglia della doccia, e aspettò che l’acqua diventasse calda.
Si mise sotto il getto, esponendo il petto alla pioggia dei sottili e sprizzanti rivoletti. La cabina si era riempita di un intenso odore di cloro.
Uscendo lasciò una scia bagnata fino in cucina, dove, con gesti meccanici, mise su del caffè d’orzo.
Si accomodò a sedere a un anglo del tavolo, aspettando che la manopola del tostapane avesse finito il giro.
Ma perché tutta questa voglia di lasciare la Terra?
─ Ripeto, sono un pensionato con lo spirito avventuriero. Poi dopo la morte di mia figlia e del mio nipotino (In un incidente aereo tre anni fa , ndr) ho passato momenti di terribile depressione ─ racconta ─ fino a quando ho letto su Internet l'annuncio di Mars Destination. Vivere qui o su un altro pianeta, per me è la stessa cosa.
─ Certo, il paesaggio sarà più monotono di quello terrestre, ─ continua ─ ma non ho paura di annoiarmi. C’è un intero pianeta da scoprire. Come cantava Eugenio Finardi: “Voglio un  pianeta su cui ricominciare”.
Prese le fette di pane e ci spalmò sopra del burro. Avevano il solito sapore di sempre. Provò a mandarle giù con un paio di sorsate d’orzo, per dare un gusto diverso al boccone.
Guardò il calendario appeso al muro, per vedere quanto mancava al prossimo approvvigionamento.
Tu sarai l'eventuale addetto al faro della base, allora.
─ Esatto. Dovrò azionarlo quando ci saranno le tempeste di sabbia. In quel caso agli esploratori non basteranno solo i sistemi digitali. Il mio compito sarà proprio quello di dare loro un punto di riferimento per il  rientro alla base.
─ Vedi, su Marte le tempeste di sabbia possono estendersi su una piccola zona così come sull'intero pianeta. E sono in grado di durare anche un mese. Li chiamano “dust devil”.
I gradini scricchiolavano sotto i piedi dell'uomo, mentre saliva su per una rampa circondata da una struttura incastellata in acciaio, fino alla stanza di guardia. Con le mani e con i piedi si aggrappò a una scala a chiocciola che lo portò a una botola che conduceva al faro.
Nel locale c'era ancora quella nota profumata, fresca e rilassante di lavanda.
Pigiò alcuni pulsanti su un pannello di controllo e spinse in avanti un paio di leve che azionarono il meccanismo rotatorio del fanale a LED. Si assicurò che le spie degli accumulatori fotovoltaici fossero accese.
Una forma a spirale scura, si stava materializzando dalle parti di una rete di canyon.
Geremia si infilò la tuta spaziale e uscì fuori, appoggiando il ventre al parapetto. Avvicinò il binocolo alla visiera: tempesta di sabbia in arrivo.
Con gli occhi incollati sull'obiettivo, fece il giro della torretta. Ovunque guardasse, nella visuale del binocolo c'era solo un oceano di sabbia rossa.
Se le cose andranno secondo i tuoi piani, sarai un guardiano del faro a tempo pieno. Un incarico di altissima responsabilità.
─ Beh, è proprio così. Ma mi dovrò occupare anche di un piccolo appezzamento di terra, su cui coltivare un orto.
Diede un'occhiata allo smartphone. Il countdown era quasi completato. La spedizione sarebbe arrivata entro pochi minuti.
E se la missione dovesse saltare ?
─ Non salterà. Sono destinato a fare qualcosa di grande, lassù.
Rientrò nel faro girando i maniglioni che sigillavano il portone di acciaio a tenuta stagna.
Pressurizzò la stanza e si tolse il casco, riponendolo nell'armadietto assieme alla tuta.
All'improvviso si accese una spia rossa, seguita da un suono acuto. Le braccia di Geremia ebbero un brusco sussulto.
Scese in fretta la rampa di scale e andò verso l'ingresso. Nell'aria c'era ancora il profumo dell'orzo e delle fette di pane tostato.
─ Sono già qui? Possibile? ─ si domandò ─ devono essere arrivati da Ovest.
─ Buongiorno. ─ disse una voce al videofono ─ Il vento è molto forte oggi.
Geremia riconobbe uno dei medici della base.
─ Mi fa entrare? ─ chiese con cortesia ─ Non vorrei essere spazzato via.
─ Certo, certo. ─ balbettò disorientato.
Il guardiano azionò il dispositivo di momentanea depressurizzazione dal quadro di controllo.
─ Scusi dottore, ma come riesce a starsene là fuori senza tuta? ─ chiese mentre richiudeva la porta stagna dell'airlock.
L'uomo sorrise.
─ Gli androidi non hanno bisogno di tute spaziali. ─ disse strizzando l'occhio ─ E io sono un androide, non ricorda?
─ Ah... certo, certo ─ balbettò ─  lei è così reale che la scambio sempre per un... beh...
─ Un umano? ─ disse ─ E invece sono un ammasso di ossa in plastica, sangue chimico e tessuti artificiali.
─ Mi scusi, non era mia intenzione...  ─ disse imbarazzato ─ Comunque è un AD 2.0 di ultimissima generazione. Un ottimo modello.
─ Non si preoccupi ─ disse, appoggiandogli una mano sulla spalla. ─ non mi sento offeso.
─ E gli altri? ─ chiese Geremia, cercando di cambiare discorso.
─ Gli altri? Ah, già. Stanno parcheggiando il rover.
─ Parcheggiando? Dove?
─ In garage.
Geremia si grattò la nuca, manifestando uno stato di leggera confusione.
─ Boh?
─ Sono venuto a prenderle la pressione.
─ Ma io sto benissimo.
─ Lo so, ma fa parte della prassi, rammenta? Si stenda e mi dia il braccio, su.
Il medico applicò il bracciale dello sfigmomanometro digitale all'uomo.
─ Com'è? ─ chiese Geremia.
─ Non male. ─ disse, rimanendo attento nell'auscultare il battito cardiaco dallo stetoscopio.
Il medico rimise l'attrezzatura a posto e uscì salutando Geremia.
─ Bene, ci vediamo domattina.
─ A domani. ─ contraccambiò il farista, allacciandosi il polsino della camicia.
L'uomo in camice bianco attraversò il corridoio e si fermò davanti a una porta.
Bussò.
─ Avanti.
─ Buongiorno professore, ho qui la cartella clinica aggiornata del paziente arrivato l'altro ieri.
Il primario la prese in mano sorridendo.
─ Ah. Quel tipo che si crede un guardiano del faro su Marte. Continui pure ad assecondarlo.