lunedì 31 ottobre 2016

LA VENDETTA di Fabio Calabrese

Il deserto al tramonto era uno spettacolo straordinario: gli ultimi raggi del sole traevano dalle sabbie e dalle rocce tutte le tonalità degli ocra e dei rossi, mentre nel cielo che imbruniva rapidamente si intuivano già le prime stelle.
L'uomo appoggiato al parapetto della vecchia torre si guardava intorno con espressione estatica, in quel momento si sentiva un uomo felice.
Non riusciva ancora a credere alla fortuna che aveva avuto. Lui era un italiano, uno scrittore, uno dei pochi che erano riusciti a trarre consistenti soddisfazioni da un mercato avaro come era quello della fantascienza in Italia per gli autori indigeni. Un paio di suoi romanzi erano stati pubblicati da una grossa casa editrice e avevano ottenuto un successo inaspettato, erano stati tradotti all'estero, e lui si era trovato quasi di colpo a essere qualcuno nell'empireo fantascientifico.
Poi era successo che degli amici americani conosciuti a una convention, una di quelle amicizie nate ai margini di simili manifestazioni, passando una nottata a scolare birra parlando di autori, di astronavi e di mondi esotici, lo avevano invitato a trascorrere quella vacanza dalle loro parti, nel Nevada.
Quel giorno, avevano fatto un'escursione nel deserto. Stavano rientrando a bordo del loro fuoristrada, perché era ormai sera e il crepuscolo si avvicinava, quando lui aveva scorto quella vecchia torre che sorgeva isolata in mezzo al nulla, e aveva insistito per dare un'occhiata da vicino.
Si trattava probabilmente di una costruzione dell'epoca spagnola sfuggita all'incuria del tempo. Forse aveva fatto parte di un fortilizio, o magari era stata il campanile di una chiesa, difficile da dire quando il resto dell'edificio o degli edifici di cui aveva fatto parte era scomparso, sgretolato o inghiottito dalla sabbia.
La torre stessa era un cilindro di antichi mattoni sgretolati e mal connessi, con una buia apertura alla base da cui si dipartiva una scala a chiocciola che si inerpicava nella penombra, e che si intravedeva appena, e doveva portare alla sommità della torre, o di ciò che ne rimaneva, poiché essa poteva benissimo essere stato più alta in passato, due o tre piani più sopra.
Lui aveva insistito per andare a dare un'occhiata, anche se i suoi ospiti l'avevano vivamente sconsigliato.
“E' ormai quasi buio”, avevano detto.
“Ci metterò poco”, aveva replicato lui, “un paio di minuti. Voglio solo arrivare là in cima per togliermi la curiosità”.
Si era inerpicato su per quegli scalini malagevoli quasi invisibili nell'oscurità, tenendosi quanto più possibile schiacciato contro il muro sconnesso per non mettere un piede in fallo, era incredibile quanto l'interno della torre fosse scuro e caldo, afoso; le vecchie pietre dovevano aver assorbito tutto il calore della giornata.
Quando fu di nuovo all'aperto trovandosi sul piano superiore della torre, provò una sensazione di sollievo.
Tuttavia, lo spettacolo del deserto all'imbrunire valeva ampiamente la pena di quel piccolo sforzo.
Non occorreva nemmeno un grosso sforzo di fantasia per immaginare...
Dario Tonani, appoggiato al parapetto della torre immaginò fin troppo facilmente che quel deserto fosse il luogo che la sua immaginazione aveva costruito, Mondo9, benché potesse essere ugualmente bene Arrakis, Dune o il Marte di Ray Bradbury, ma la sua mente andava in una precisa direzione, quello ERA Mondo9. A un certo punto, la percezione era così netta che alzò la testa fissando lo sguardo nel crepuscolo incombente per intravvedere il volo di un'alaquadra.
All'improvviso, provò una sensazione di freddo assolutamente incongrua. Possibile? Il parapetto su cui si era poggiato non sembrava più fatto di pietra ma di metallo. Non ebbe il tempo di stupirsene, perché un fruscio alle sue spalle lo fece voltare.
Non aveva mai visto con gli occhi l'essere che stava avanzando verso di lui, ma non avrebbe potuto avere dubbi sulla sua natura, perché l'aveva visualizzato molte volte con la mente in tutti i particolari: quella creatura che sembrava fatta di ottone eppure si muoveva con la fluidità di un essere vivente, quell'umanoide metallico nel cui viso calvo le orbite erano pozzi di oscurità profonda, eppure sembrava vedere o percepire benissimo la sua presenza con sensi sconosciuti, era fuori di dubbio un mechardionico, uno strappacuori!
Reprimendo un grido strozzato, Dario Tonani arretrò, poi si diede alla fuga, una fuga assurda, senza speranza lungo il perimetro circolare della sommità della torre. Dov'era la botola che portava alla scala a chiocciola e ai piani sottostanti? Possibile che non riuscisse più a trovarla?
Il mechardionico era ormai vicinissimo, l'aveva costretto in un angolo. Dario Tonani arretrò ancora quanto gli era possibile. Il parapetto di mattoni sconnessi della vecchia torre cedette all'improvviso, e l'uomo precipitò nel vuoto.
Mentre il suo corpo impattava duramente sul suolo sottostante, Tonani notò il ribollire della sabbia intorno a lui, tutto attorno stavano uscendo dallo strato sabbioso creature vagamente simili a enormi fiori dai petali carnosi.
“Mangiaruggine”, pensò fuggevolmente mentre la sua coscienza svaniva, “Mangiaruggine”.
Sulla sommità della torre, il mechardionico subì una trasformazione, il suo aspetto divenne più nebuloso, indistinto, riacquistò l'apparenza del fantasma che effettivamente era, il fantasma di un uomo la cui mente aveva vagato attraverso i pianeti e le stelle ma rimaneva inequivocabilmente terrestre, un astronomo, il fantasma di un uomo che in vita aveva portato il nome di Clyde Tombaugh.
L'anima di un uomo dopo la scomparsa del corpo fisico, talvolta tarda a raggiungere il suo destino ultraterreno: un compito, un desiderio, una vendetta da compiere, possono ancora legarla al piano materiale.
Per tutta la sua vita, Clyde era stato fiero di essere stato lo scopritore di Plutone, il nono pianeta del sistema solare, ma poco dopo la sua morte era arrivato lo smacco: Plutone era stato declassato a pianeta nano, e i mondi importanti che orbitavano intorno al sole erano tornati a essere otto. Si era accorto che una parte importante nell'influenzare la comunità scientifica a prendere quella scellerata decisione, l'aveva avuta un libro di fantascienza scritto da un autore italiano dove si parlava di un nono mondo, un Mondo9 alternativo a Plutone, e benché si trattasse di null'altro che di una costruzione di fantasia, il suo impatto psicologico l'aveva avuto.
Leggendo nella mente di Dario Tonani morente, Clyde Tombaugh si rese conto che la sua vendetta non era ancora completa. C'era un altro uomo che aveva dato concretezza a Mondo9 col suo lavoro di illustratore, aveva fatto sì che tanti visualizzassero quella fantasticheria come se fosse stata una realtà.
“Franco Brambilla”, pensò, “adesso tocca a te”.

giovedì 27 ottobre 2016

IL REGALO di Giuseppe Novellino

Priscilla ormai è sveglia.
Si gira sul materasso Bioadat, la cui morbida fibra accarezza i movimenti del suo corpo nudo. Il lenzuolo termico la avvolge come una nuvola. Gli occhi sono ancora pieni di sonno, ma la mente ha già cominciato a vagare nel mondo della realtà quotidiana. La camera è immersa in una penombra azzurrognola, che la sera prima la ragazza ha creato per conciliare il sonno. Priscilla ha bisogno della semioscurità per dormire, ma odia il colore nero. Per questo ha programmato quel barlume tendente all’azzurro, colore che per lei è rilassante e che ha ammirato la settimana scorsa nel cielo della Riserva Ameba3, dove si è recata in gita scolastica.
Oggi è il suo compleanno, un giorno speciale.
Chissà se riuscirà a togliersi di dosso quel senso di malinconia che la accompagna da qualche giorno, da quando è rientrata dall’escursione con i compagni. Ha provato un senso di privazione, come se le fosse stato tolto qualcosa di molto caro, di estremamente vitale. In un primo momento ha pensato che questo sentimento fosse provocato da Kevin, il ragazzo di un altro Istituto che ha conosciuto durante la gita. Adesso, invece, è convinta che la nostalgia riguarda l’ambiente di Ameba3. Come farà a dimenticare quel paesaggio ameno, quel laghetto circondato da splendidi abeti, prati fioriti,  rocce incrostate di muschio verdissimo, le cime innevate, e il cielo cristallino?
Scaccia il pensiero e preme il pulsante sotto il guanciale. Con un debole ronzio fischiante, si materializza davanti a lei la piccola consolle per il controllo e il funzionamento della camera.
Si mette a sedere ed osserva le spie accese sul quadrante. Sceglie la funzione illuminazioni e seleziona la voce risveglio. Ha ben diciotto possibilità, rigorosamente legate alle quattro stagioni, molto realistiche nei loro effetti sulla stanza e sullo stato d’animo della persona che la abita. Si decide per la nona possibilità: Risveglio nella fattoria di nonna Adelina.
L’azzurro si schiarisce e le ombre del locale si dissolvono lentamente. Ritornano i contorni della camera e dell’arredamento. Dai pannelli che chiudono le due finestre a rombo, proviene una nuova luminosità che a poco a poco assomiglia a quella del sole di una mattina estiva. Sulle superfici dei pannelli si disegnano fughe di colline e rami di piante mossi dalla brezza.
Priscilla sa che, aprendo i pannelli, vedrebbe solo uno scorcio della megalopoli padana, con le sue geometriche costruzioni di plexiglas, cemento e acciaio. Ma il pensiero non la disturba più di tanto. Preme un altro tasto. Si diffonde una musica allegra e compaiono i dati riguardanti il nuovo giorno:
Oggi è il 30 aprile 2109.
Il sole sorge alle ore 6.07 e tramonta alle ore20.08
Su Mediolano Padano è previsto un tempo  nuvoloso, con deboli piogge a intermittenza.
Lo smog è al livello SALT-13, ma si prevede una puntata a SALT-16. Quindi, se esci dalle 14.00 alle 17.00, ti consiglio di indossare la mascherina PLUMB-JUNIOR con bomboletta incorporata all’atmosfera di violetta.
Non indugiare su pensieri troppo malinconici, fai della ginnastica e consuma ortaggi di stagione. Prodotto consigliato: asparago
Alla luce del mattino di Nonna Adelina si guarda nello specchio.
Il suo corpo nudo appare in tutta la sua grazia acerba. In fondo le piace. Ha superato il periodo in cui si vedeva o troppo magra o troppo grassa. Adesso, per esempio, le gambe non le sembrano così lunghe. I fianchi si sono un po’ allargati ma a tutto vantaggio nell’armoniosità dell’insieme. Il seno è ancora un po’ piccolo, però promette di diventare alto e sodo. Solo il naso non le piace: troppo lungo, appuntito e sottile. I capelli, invece, sono una meraviglia: una cascata d’oro che risalta ancora di più quando la raccoglie in una vistosa coda all’ultima moda.    
Ecco che in camera si diffonde la voce della madre: – Sei sveglia, cara?
Ogni componente della famiglia può starsene tranquillamente nell’intimità del proprio locale preferito e comunicare con gli altri come se stessero a tu per tu.
Priscilla fa un volteggio, riguarda con occhio compiaciuto le sue nudità e risponde:
– Sì, mamma, sono sveglia. Mi vesto e scendo in cucina per la colazione.
La famiglia Cremaschi è abbiente, di “Livello 8”. Abita in un lussuoso appartamento di Settore Segrate, disposto su due piani. Il palazzo è di recente costruzione, situato in una nuova zona residenziale a poca distanza dagli stabili della Cheng Servizi. Nei paraggi ci sono anche i depositi della Consorsi Metropolitani, e sul lato destro del giardino condominiale comincia uno dei sette grandi autoparcheggi del Supermegamercato Kastor. – Intanto ti auguro buon compleanno – dice ancora la mamma.
– Grazie – cinguetta Priscilla, infilandosi le mutandine.
Dopo aver fatto colazione in compagnia della cucina parlante NAT-rb, Priscilla torna nella sua cameretta per scrivere una pagina di diario. Di solito vi si dedica la sera, prima di coricarsi, ma quella mattina è vacanza, ha tutto il tempo a sua disposizione. E poi sente il bisogno di confidarsi con qualcuno.
In un primo momento ha pensato di parlare ancora con la mamma. Lo ha fatto attraverso la comunicazione intercamerale. Brevi parole per sentirsi dire da lei che è molto occupata e che in mattinata dovrebbe arrivare il regalo per il compleanno.
Accende il suo computer e si mette a scrivere o, meglio, a creare immagini con il nuovo programma Videologo, una vera meraviglia: sostituisce la tradizionale scrittura. Ha cominciato a usarlo da pochi mesi. Il senso del ricamo iconico, alla fine, viene anche tradotto nel seguente testo.
Il regalo più bello che mamma e papà potrebbero farmi è di andare a vivere in una Riserva, come Ameba3. Adoro tutti gli elementi del paesaggio alpino: i laghetti, le foreste di conifere, i prati scoscesi, le cime innevate, le mucche al pascolo, i ruscelli gorgoglianti e i cespi di rododendri. Tutte cose che ho studiato in scienze e in geografia, ma che ho anche visto di persona durante l’ultima gita scolastica. Sarebbe bello vivere in uno di quei posti, dove l’aria è pulita e la vita scorre tranquilla, in confortevoli abitazioni che rispecchiano l’antica architettura montana. Purtroppo la mia famiglia non può, per il momento, stare  nella riserva. Per chiedere il trasferimento in un luogo simile bisogna appartenere almeno al “Livello5”. E anche coloro che sono più ricchi devono rispettare una certa graduatoria.
Il cicalino avvisa che sta arrivando una video chiamata.
È Ilona, una sua amica. Appare seduta sul letto sfatto della sua cameretta, con le gambe nude, mentre sta dipingendo le unghie dei piedi. Da un orecchio le pende il filo dell’auricolare.
– Buon compleanno, Priscilla!
– Grazie, Ilona.
– Che cosa stai facendo?
– Sto scrivendo a me stessa.
– Diario?
– Sì.
– Che tenera!
– Quale lacca stai usando?
Vernicel di Donna Rosa.
– Wow! - Partecipi alla mia festa?
– È per questo che ti ho chiamata. Per sapere l’accesso di collegamento.
– Vorrei fare la festa a casa mia.
– Vorresti farla live, la festa?
– Sì.
– Nel senso di trovarci in dieci in un locale?
– Come si faceva una volta.
– Ma i tuoi cosa dicono?
– Non glielo ho ancora chiesto.
Ilona ha smesso di truccarsi e ora guarda nell’obiettivo. Sorride.
– È solo una tua speranza. Vedrai che i tuoi genitori non sono d’accordo.
– Ma io vorrei… 
– Tu sei un po’ antichista! La festa con il collegamento audio e video dà maggiori possibilità. Quando si è a tu per tu, si rimane distratti da tante cose.
– Ma potreste portarmi il regalo con le vostre mani.
– Per via elettronica, il dono viene descritto meglio. Quando è il mio compleanno mi piace aspettare il robot postino che me lo porta a casa il giorno dopo.
 - Sarà.
Ilona raccoglie le gambe, butta indietro i capelli. – Ti è passata la nostalgia di Ameba 3? A me non è mai venuta.
– Stavo cercando di dirlo a me stessa, costruendo immagini con il mio Videologo. 
– Ci sei riuscita?
– No.
– Non stare in pena. Ti richiamo.
– Per che cosa?
– Ma per il collegamento, no? Oppure per sapere se devo venire di persona.
 -  Va bene.
– Ciao Priscilla.
– A presto, Ilona.
Quella sera, Priscilla si ritrova nella sua cameretta.
È stanca, ma contenta. La nostalgia per i paesaggi della lontana riserva si è stemperata. Ogni tanto lancia un’occhiata al regalo di suo padre, sistemato in un angolo vicino a una delle due finestre romboidali. La giornata è stata frenetica. Prima la richiesta di fare il compleanno live. Poi la rabbia per il categorico rifiuto della mamma. Ma quando è arrivato il regalo di papà, il malumore è sparito. Non stava più nella pelle, vedendo quel dono che la riportava concretamente fra i boschi della Riserva, profumati di resina e di muschio.
Così si è lanciata nella festa on line con un’allegria davvero invidiabile.Tutti l’hanno lodata e ammirata, e sono rimasti meravigliati per quel regalo insolito e grazioso.
Ilona ha esclamato:
– Che tenero! Mi piacerebbe averne uno.
Priscilla avrebbe voluto darle l’indirizzo dove era stato acquistato, ma ovviamente non lo sapeva.
Ora si mette davanti allo schermo e alla tastiera. Ha sentito il desiderio di comporre ancora qualcosa sul suo diario.
 Con il regalo che mi ha fatto papà, mi sembra di stare in un bosco della Riserva. Lui mi capisce, più della mamma. Si è reso conto che io vorrei abitare in un luogo pieno di cose belle, di aria pura, e che faccio fatica a vivere in questa megalopoli. Quando tornerà dall’Australia, lo abbraccerò e lo bacerò con tutto il mio affetto. È un grande ingegnere. Corre per il mondo, spinto dagli impegni di lavoro. Io vorrei che stesse un po’ più con me e con la mamma, ma capisco che la sua vita indaffarata mi permette di vivere agiatamente. Guadagna molti soldi e un giorno potrebbe anche passare di livello.
 Dopo avere scritto il suo diario, Priscilla si spoglia.
Preme un pulsante, trasforma le finestre romboidali in pannelli che produrranno, al mattino, l’atmosfera luminosa che meglio gradirà per il risveglio. Tutta nuda, si avvicina alla gabbia dell’uccellino che suo padre le ha regalato. È di un amore indescrivibile. Giallo, con una testolina deliziosa, da cui spunta un becco argentato, con due zampette nervose che si aggrappano al trespolo.
L’uccellino ha saltellato tutto il giorno, passando dal trespolo al fondo della gabbia. Ogni tanto si aggrappa alla parete e cinguetta allegramente.
– Dovrai stare nella penombra, questa notte – gli sussurra Priscilla. – Spero che ti piaccia l’azzurro. È il mio colore preferito. Domani mi sveglierai con il tuo canto, vero?
L’uccellino adesso è immobile. Non muove più la testolina. Sta aggrappato al trespolo e sembra che ascolti la sua padroncina.
– Forse capisci quello che ti sto dicendo… 
Ma un sospetto atroce comincia a farsi strada nell’animo della ragazza.
Da un bel momento il volatile è troppo fermo per essere quella creatura vivace dei boschi e dei cieli limpidissimi. Allora Priscilla apre la gabbietta. È agitata, nervosa, e nell’armeggiare con lo sportellino scuote la casetta del suo piccolo amico. L’esserino si stacca dal trespolo e cade rigidamente sul fondo.
Priscilla lo afferra e nota che una zampetta non sembra bene attaccata al resto del corpo piumato. Allora tira la zampetta e si accorge che dall’interno emergono due fili plasticati.
    

mercoledì 26 ottobre 2016

CARA MEG di Donato Altomare

Cara Meg,
è da molto che volevo scriverti una lettera, sapessi quante volte ho acceso il logomodem e ho iniziato a dettare, ma ogni volta, dopo poche parole, le idee si sono arenate come un tronco d’albero sulla battigia. Oggi però è successo qualcosa. Che ti devo assolutamente raccontare.
Sai, il mio amore di sempre è stata la Storia, in particolare il Delitto e il Castigo nella Storia. Oggi è argomento di noiose conferenze, ma credimi, ho fatto una scoperta terribile, e ho bisogno di parlarne con qualcuno. Lascia stare la protostoria, non voglio partire di lì, ma dall’inizio del terzo millennio, quando quei maledetti geniali italiani cominciarono a capire che andava completamente rivoluzionato il concetto di punizione. Già, maledetti, con quel loro modo pressapochistico di risolvere le situazioni più difficili... riuscendoci ogni volta. Vedi, quella ch'era allora chiamata Italia stava affogando in un mare di arresti per concussione, tangenti, finanziamenti illeciti ai partiti (buffa invenzione legale) e simili idiozie. Ebbene fu proprio intorno al 2025 che quel bastardo d'un giudice inventò la cosiddetta Pena del Contrappasso. I colpevoli di truffa, gli uomini politici che si erano appropriati del denaro pubblico, quelli corrotti e i corruttori furono spogliati di tutti i loro averi, tutti, compresi quelli lecitamente acquisiti, e lasciati liberi di vivere con la sola pensione sociale, il minimo naturalmente. Credimi, c'era del geniale in tutto questo, quale punizione più tremenda poteva esserci per qualcuno abituato a vivere nel lusso più sfrenato, a sperperare soldi non suoi senza pudore, se non quello di tentare di sopravvivere nella impietosa società d'allora con poche migliaia di euro al mese?
Di lì il passo fu breve. Si risolse rapidamente il problema della delinquenza minorile. Per ogni reato commesso da un minore uno dei genitori scontava la metà della pena. Pensaci un po', era assurdo che venissero puniti i complici di una rapina o di un omicidio, ma lasciare impuniti i genitori di un piccolo delinquente che avevano certo le maggiori responsabilità. Quella fu la volta della Pena Generazionale.
Dopo pochi anni si passò alla Pena Corporale. No, non puoi ricordarlo, e non è come tu pensi, certo, si trattava di menomazioni, ma temporanee. Un ladro subiva l'amputazione della mano destra (sinistra se mancino), e, al termine del periodo di pena, la mano, accuratamente conservata, gli veniva riattaccata come non fosse successo nulla. Ma passare mesi se non anni senza una mano era difficoltoso. Ricordo che quando a scuola studiavamo questo periodo tutti pensavano alla pena per i maniaci sessuali. Per loro la prima grossa difficoltà era quella di, perdona l'indelicatezza, orinare senza pene, C'era gente che se la faceva quasi sempre addosso. No, non era affatto bello, e i colpevoli ci pensavano, e riflettevano. I delitti diminuirono bruscamente, e ciò che dimostrò il successo della Pena Corporale fu che i recidivi si ridussero praticamente a zero.
Gli assassini venivano devitalizzati dalla testa in giù, e restavano paralizzati per anni, dipendendo in tutto e per tutto dagli altri. E, massima punizione psicologica, avendone perfettamente coscienza.
Quando si giunse a scoprire il cosiddetto Gene del Male si pensò che ormai per l'umanità intera si spalancavano le porte del Paradiso. Non ci sarebbero stati più delinquenti, sarebbe bastato devitalizzare quel gene e tutti sarebbero stati dei galantuomini. E così hanno fatto.
Ma… ma oggi ho scoperto che l'umanità è perduta, destinata a scomparire dalla faccia della Terra. Sai, oggi ho compiuto cent'anni e ho voluto festeggiare a mio modo questa ricorrenza. Sono sceso in strada e ho ucciso la prima persona che m'è capitata a tiro, le ho spaccato il cranio con un colpo del mio bastone multifunzionale.
Avresti dovuto vedere le facce degli altri. Mi hanno guardato come fossi stato un fantasma o un alieno. Del resto sono uno degli ultimi a non avere avuto il Gene del Male devitalizzato. Ma non hanno reagito, hanno soltanto sollevato le spalle, e sono tornati a percorrere la loro piatta e inutile vita.
Non è venuta la polizia. Son quasi settant'anni che non esiste più. E allora ho capito. Una volta c'era il male e il bene, c'era l'uomo in eterna lotta con se stesso. Oggi non c'è più nessuno... nessuno...
Come se fossimo una squadra di calcio e che giocassimo tutti contro nessuno, che calciassimo i nostri palloni in mille contro una porta vuota. Sarebbe un gioco bello soltanto per pochi attimi, poi diverrebbe tremendamente stupido. Ecco perché oggi ho voluto scriverti. Per annunciarti la morte dell'umanità.
Io, ultimo suo figlio ribelle, non vivrò ancora per molto, quindici, forse vent'anni, ma credo... penso... sono quasi certo che vivrò più a lungo della gente che mi sopravviverà e popolerà la terra per il prossimo millennio.
Domani visiterò una di quelle meravigliose cliniche nelle quali i bambini appena concepiti vengono privati del prezioso Gene del Male. Ho fabbricato una bomba rudimentale e farò saltare il Reparto Devitalizzazione. Vorrei che anche tu facessi lo stesso nella tua città e che diffondessi questo messaggio tra gli ultimi uomini sani, col male ancora in sé, e che per cent'anni sono stati capaci di tenerlo a freno. Avvisali, informali, ho paura di saltare in aria col mio meccanismo, non sono sicuro che funzioni bene, ne ho recuperato uno da un negozio di cianfrusaglie antiche.
Cos'è il bene se non l'immagine speculare del male? Il bene non può esistere da solo come non potrebbe esistere la mia immagine nello specchio senza di me. Oggi ci siamo ridotti a miliardi di immagini speculari. Soltanto questo. 
Il male è vita, fa sì che la gente si unisca per combatterlo, per conquistare la pace. Sì, carissima, conquistare la pace, quella vera, quella che prova un guerriero alla fine di una battaglia.
Come si potrebbe apprezzare la luce se non si temesse il buio?
Il paradiso senza l'inferno?
Che il male torni a vivere!
O l'umanità si consumerà in questa sua lenta inesorabile eutanasia.
                                                   Ti abbraccio, forse per l'ultima volta,  tuo
                                                                        Aarold.

martedì 25 ottobre 2016

TYRANNOSAURUS REX di Paolo Secondini

Si udì dapprima un sordo brontolio: una specie di tuono in lontananza e, subito dopo, un grido possente, lacerante.
Jennifer si svegliò di soprassalto. Gli occhi assonnati, volse lo sguardo intorno e non vide che alberi, erba, cespugli, rischiarati dai vividi raggi della luna.
Tese la mano verso il ragazzo che ancora dormiva al suo fianco, chiuso nel sacco a pelo, e lo scosse più volte.
«Svegliati, Alfred! Svegliati!» disse con voce convulsa. «Ho sentito qualcosa.»
Il ragazzo non rispose, né si mosse. Allora Jennifer lo scosse di nuovo, più a lungo.
«Svegliati, per favore! Mi senti? Svegliati!»
Finalmente Alfred dischiuse le palpebre. Poi aprì la cerniera lampo del sacco a pelo e si alzò a sedere.
«Cosa c’è?» domandò. «Che succede, Jennifer? Perché mi hai svegliato?»
«Mi è parso di udire un grido, una specie di… barrito.»
«Un cosa?»
«Un barrito di elefante, credo… ma molto più forte, più roco.»
Il ragazzo si stropicciò energicamente il viso con le mani, quindi, in tono deciso:
«Mai sentito parlare di elefanti in una foresta del Nord America. Siamo nello Stato del Wyoming, Jennifer, non in Africa o in Asia, dove appunto vivono quei bestioni. Sono certo che il barrito lo hai soltanto sognato.»
La ragazza inghiottì la propria saliva, poi scosse la testa.
«No, Alfred! Ero sveglia quando l’ho sentito.»
«Sentito cosa, con esattezza?»
«Accidenti, testone! Quel dannato…»
Questa volta il barrito – o quello che era – si udì più possente, più vicino.
I due ragazzi si alzarono in piedi, di scatto, e restarono immobili, il fiato sospeso, a fissare le chiome degli alberi che oscillavano vivacemente, pur non essendoci un alito di vento. A un tratto comparve fra esse la testa enorme di una creatura mostruosa e, poco dopo, il resto del corpo: massiccio, imponente, che si fece largo tra i rami e i tronchi degli alberi, spezzandoli come se fossero fuscelli.
«Ma… ma…» balbettò Alfred, allungando una mano davanti a sé. «Non credo ai miei occhi. È un… tirannosauro.»
«Un tirannosauro?» si stupì Jennifer. «Ma come è possibile?! Questo grosso animale è vissuto nel Cretacico superiore, circa settanta milioni di anni fa.»
«Come fai a sapere queste cose?»
«Le so, Alfred! Ma tu, a scuola, cos’hai impara…»
Fu interrotta da un altro terribile grido, che uscì dalla bocca smisurata e irta di zanne dell’animale preistorico, il quale, sporgendo in avanti la testa, ne mostrò i segni di una ferocia inaudita, tra cui due piccoli occhi fiammeggianti.
Alfred, istintivamente, afferrò la ragazza per la mano.
«Scappiamo, presto!»
Corsero a perdifiato tra gli alberi della foresta, sentendo dietro di loro i passi pesanti e rumorosi dell’animale, che sembrava guadagnare terreno.
«Di là,» disse Alfred, «in quella radura. Su quell’alta parete rocciosa troveremo rifugio… Presto! Presto! Prima che sia troppo tardi… Ci sta raggiungendo.»
Jennifer, nel seguirlo, inciampò in una radice affiorante dal terreno. Cadde lunga distesa tra l’erba.
«Alfred! Alfred!» chiamò, disperata. «Aiutami, ti prego!»
Il ragazzo si fermò, si volse, la vide annaspare carponi. Poi guardò l’animale che si avvicinava rapidamente. Ebbe solo un attimo d’esitazione. Tornò indietro e aiutò la ragazza a rimettersi in piedi.
«Svelta, Jennifer!» disse. «Per l’amor del Cielo! Muovi quelle gambe!»
E ancora una volta, lei si lasciò trascinare per mano, come fosse da sé incapace di correre.
Dopo alcuni secondi, furono ai piedi della parete rocciosa. Vi s’inerpicarono velocemente il più in alto possibile.
«Qui staremo al sicuro,» disse Alfred un po’ rinfrancato, ma con il respiro affannoso. Poi scosse la testa. «Ancora non credo a quello che ho visto. Un tyrannosaurus rex! È… è… è…» Cercò di trovare le parole più adatte a rendere chiaro ciò che provava in quel momento, ma non vi riuscì.
Guardarono in basso, dove intanto era giunto il grosso animale il quale, la bocca spalancata, continuava a emettere un grido possente, che faceva accapponare la pelle.
«Urla quanto ti pare,» disse il ragazzo, assumendo d’un tratto un atteggiamento di sfida. «Ma non finiremo nella tua pancia, brutto bestione!»
Si volse a osservare Jennifer per rassicurarla, poi guardò nuovamente il tirannosauro. Ma nello spostare il peso del corpo dall’uno all’altro piede, una roccia cedette e Alfred, precipitando con un grido… si svegliò di soprassalto, il cuore che gli pulsava, nel petto e in gola, all’impazzata.
Il suo volto era madido di sudore.
«Cosa c’è?» chiese Jennifer, destata dal grido del ragazzo.
Tutti e due aprirono i sacchi a pelo e per qualche momento restarono fermi, nel silenzio assoluto della foresta.
«Ho fatto… un bruttissimo sogno, Jennifer,» disse Alfred, con voce tremante. «È stato spaventoso… agghiacciante!»
«Hai avuto un incubo?»
«Sì, sì… Tu e io eravamo inseguiti da un orribile…»
Restò in silenzio e inghiottì a fatica la propria saliva.
«Da cosa?» lo esortò Jennifer. «Da che cosa eravamo inseguiti?
«Da un… tyrannosaurus rex… Era…»
S’interruppe di colpo perché, proprio in quel momento, un improvviso e possente barrito fece tremare la foresta.
Istintivamente, i due ragazzi volsero gli occhi alle cime degli alberi, da dove videro alzarsi in volo, battendo le ali con frenesia, nugoli neri di uccelli spaventati.

 

 

 

 

lunedì 24 ottobre 2016

ASSOLUZIONE di Teresa Regna

Imhett si agitava nel sonno, senza posa: il suo corpo magro e nervoso si muoveva a scatti, a destra e a sinistra; ad ogni movimento convulso rischiava di cadere dalla cuccetta. L’alto e il basso si confondevano nella sua mente, come se la navetta adibita all’esplorazione non fosse dotata del controllo pressione a 1G; le braccia si tendevano ad afferrare l’aria riscaldata a 20° centigradi, i piedi scalciavano contro il bordo inferiore del ‘loculo’ adibito a cuccetta, la bocca si apriva e si chiudeva come se stesse conversando con un amico invisibile.
La donna stava sognando: ombre incerte e fantasmi evanescenti popolavano il suo incubo. Allungava le mani a cercare di afferrarli, ma si dileguavano prima che le dita potessero stringerli; muoveva le labbra a pronunciare frasi che si disperdevano nell’aria con un suono strozzato, senza riuscire a stabilire un contatto. Si svegliò, di botto, e impiegò qualche secondo a rendersi conto di dove si trovava. Sedette sulla cuccetta incassata nella paratia, rinunciando ad usare le cinghie di contenzione per concedersi un supplemento di sonno sereno. Non sarebbe stato sereno, in ogni caso: il suo cuore batteva più forte di uno scarico a risucchio e il suo respiro era affannoso come se indossasse un antiquato scafandro. Pazienza, si disse, tanto tra un paio d’ore sarò a destinazione.
Visto dalla navetta, il pianeta somigliava alla Terra, con le sue montagne dalla cima aguzza e gli oceani che delineavano le forme quasi geometriche dei continenti. I colori, però, erano singolari: rosa slavato l’erba alta, blu cobalto gli arbusti, viola le acque che serpeggiavano lungo la pianura, scendendo verso il mare in eleganti, sinuose curve, giallo ocra le cime dei monti. Era come se un bambino terrestre avesse deciso di colorare il mondo a modo suo.
Se dovesse nevicare, verrebbero giù dei fiocchi rosso sangue?, si chiese Imhett, mentre indossava la tuta pressurizzata e controllava il casco.  Sulle mappe galattiche veniva specificato che Grostji era stato colonizzato, molti anni prima, ma la composizione dell’atmosfera non la convinceva del tutto: c’erano troppo ozono e poco azoto, per cui aveva deciso che era meglio non correre rischi.
La discesa fu lenta; la navetta si posò sul pianeta dolcemente, come il petalo di un fiore che cade a terra pian piano. La donna indossò il casco, controllò un’ultima volta la scorta di ossigeno, poi si decise a premere il pulsante di apertura del portello principale. Con un sibilo acuto, l’aria uscì dall’apertura esagonale, mentre il portello veniva risucchiato nella parete esterna dello scafo; la scaletta si svolse palmo a palmo, raddrizzandosi man mano che si avvicinava al suolo.
Gettando un’occhiata circolare ad osservare la radura sulla quale aveva fermato il suo mezzo di trasporto, Imhett percorse la scaletta ormai irrigidita nella sua posizione più funzionale. Un sorriso le increspò le labbra sottili quando vide una macchia di fiorellini marrone cupo, che invece delle foglie esibivano una serie di filamenti blu elettrico che si intersecavano fra loro.
“Pianeta interessante”, biascicò la donna. Come tutti gli astronauti abituati a rimanere da soli per lunghi periodi, aveva contratto l’abitudine di parlare, di tanto in tanto, con se stessa.
Lasciò spaziare lo sguardo fino all’orizzonte, delimitato da una macchia di alberi e arbusti dello stesso sconcertante blu scuro, e schioccò le labbra: non si scorgeva nessuna traccia della passata attività umana. Decenni fa, in quel luogo sorgeva un insediamento umano composto da una lunga casa comune suddivisa in appartamenti singoli, un enorme capannone che fungeva da magazzino, dei campi coltivati, e una chiesa ricavata dallo scafo dell’astronave che aveva trasportato i coloni su Grostji.
Imhett aveva studiato le vecchie mappe, sia spaziali che geografiche, visionato i filmati che i coloni avevano inviato nel corso degli anni, letto i rapporti degli esploratori che l’avevano preceduta. Non aveva trovato, però, la chiave che l’aveva condotta fino all’avamposto più estremo della Galassia: la causa dell’estinzione in massa dei coloni.
Le ipotesi erano molteplici, ma nessuna di esse era stata ancora verificata in loco. Gli esploratori si erano limitati a fotografare il pianeta da una distanza di sicurezza, mappando il territorio a mano a mano che la natura si prendeva la rivincita sull’uomo. I campi si erano allagati, le costruzioni prima erano crollate e poi si erano sbriciolate; la vegetazione aveva ripreso possesso, a poco a poco, del sito in cui sorgeva l’insediamento, mentre una specie mutante di batteri danneggiava irreparabilmente lo scafo, facendolo sprofondare nel terreno.
La donna era lì per scoprire la causa della distruzione della colonia. Si rifiutava di ripercorrere, con la mente, le ipotesi degli scienziati, quelle dei costruttori dell’astronave e dei finanziatori della spedizione: voleva trovare da sé la soluzione di quell’enigma.
Doveva cominciare a darsi da fare per disseppellire qualche resto della colonia annientata: era sicura che non tutto il materiale era sbriciolato o completamente distrutto. Se i suoi calcoli erano esatti, avrebbe trovato almeno un frammento di scafo, un mattone, una suppellettile, un osso umano, insomma qualcosa che ogni archeologo degno di questo appellativo avrebbe ripulito, catalogato e inventariato.
Disponeva di un’autonomia di due ore d’ossigeno e di tutti gli attrezzi che le occorrevano. Cominciò a scavare nell’area in cui, secondo le informazioni in suo possesso, una volta si ergeva la casa comune, un complesso rettangolare molto lungo e piuttosto stretto, costruito in mattoni di argilla cotti al forno. Dopo aver spalato terriccio ed erba per una buona mezz’ora, trovò il primo reperto: un piatto sbreccato, di ceramica non decorata. Incoraggiata da quel ritrovamento, continuò il suo lavoro con maggiore lena.
Quando la provvista di ossigeno si esaurì, costringendola a rientrare nella navetta, aveva collezionato alcune suppellettili, nessuna delle quali intatta, e una minuscola statuina di creta raffigurante un essere alato. Dispose i reperti su un ripiano, nella cabina, ed esalò un sospiro: potevano dirle qualcosa della vita quotidiana della colonia, ma non rispondevano certo alla domanda cruciale. Aveva ancora circa tre ore di luce da sfruttare, per cui si rifornì di ossigeno e riprese a scavare. All’imbrunire la sua collezione si era arricchita di un paio di bicchieri e alcuni attrezzi agricoli, però non era affatto più vicina alla soluzione dell’enigma.
Il giorno successivo, Imhett portò avanti l’attività di scavo dall’alba fino notte inoltrata, con pause di pochi minuti per rifocillarsi e trasportare i reperti nella navetta. Dopo un’ora di lavoro, decise di liberarsi dell’ingombrante tuta e dello scomodo casco, rischiando di respirare un’atmosfera non ottimale per poter scavare con maggiore velocità. Sentire l’aria fresca sul viso la rese tanto euforica che cominciò a chiacchierare da sola, ridendo per qualunque sciocchezza. Ammutolì soltanto quando trovò le prime ossa, completamente scarnificate e imbiancate dagli agenti atmosferici: le posò sulla piccola porzione di terreno brullo intorno alla navetta, decisa a ricostruire almeno un intero scheletro, poi si rimise al lavoro.
La scoperta determinante avvenne poco prima che la donna decidesse che era giunto il momento di riposare per la notte: un rettangolo di plastica spuntò sotto la lunga radice di un piccolo arbusto viola. Imhett cominciò a scavare con le mani per non danneggiare il prezioso reperto, all’apparenza intatto e sicuramente di fattura terrestre, e portò alla luce del crepuscolo imminente la tastiera di un antiquato computer, risalente all’epoca in cui i comandi vocali non erano stati ancora perfezionati. Quasi un’ora dopo, trovò il CPU, e dopo un paio d’ore e uno scavo circolare dal raggio più ampio di un metro, anche il monitor. Il cavo di alimentazione sembrava intatto, e la batteria all’iridio aveva tutta l’aria di essere ancora funzionante.
Trasportò i preziosi reperti sulla navetta, e consultò gli appunti: la batteria era stata costruita per durare oltre un secolo, e tutti i componenti del computer erano, nel periodo della colonizzazione, all’avanguardia. Mettendolo in funzione, forse avrebbe ottenuto qualche risposta interessante, ma era troppo stanca per farlo in quel momento. Sbadigliando senza ritegno, si sdraiò sulla cuccetta e piombò in un sonno senza sogni.
Il mattino seguente, a mente lucida, Imhett cominciò ad esaminare con maggiore attenzione il computer che era rimasto sepolto per quasi un secolo. Sotto alla tastiera era inciso uno strano disegno: due mani unite in una stretta sormontate dal disco solare, mentre dietro il CPU c’era un’altra incisione, una scritta che recitava ‘proprietà privata dei Fratelli della Chiesa Universale’. Batté la mano sulla fronte alta, e scoppiò in una risata argentina: nella foga della ricerca aveva quasi dimenticato che la città i cui reperti stava portando alla luce era stata fondata da una comunità religiosa.
I Fratelli della Chiesa Universale erano una via di mezzo tra intransigenti cristiani della prima ora e puritani inglesi del millennio precedente. Ritenevano il lavoro una forma di purificazione, pregavano almeno sei volte al giorno, si sposavano soltanto all’interno della loro cerchia ristretta e, naturalmente, credevano di essere i depositari della Sola e Unica Verità. “Proprio come tutti i fondamentalisti”, commentò.
Collegò gli spinotti nei rispettivi alloggiamenti, schioccando la lingua con impazienza, poi accese il computer. Una scritta in giallo oro campeggiò al centro esatto del monitor: CONFESSORE AUTOMATICO INSERITO. Incuriosita, pigiò il pulsante ENTER.
Benvenuta, sorella – benvenuto, fratello. Digita il tuo nome e il tuo sesso.
SONO UNA DONNA. MI CHIAMO IMHETT.
Digita i peccati che hai commesso, sorella.
Imhett rimase un attimo pensierosa, poi improvvisò. SONO STATA EGOISTA.
Dividi il tuo cibo con i fratelli a te più vicini, prega molto e cerca di non peccare più. Lo schermo si riempì di quadratini rosa pallido intersecati da linee bianche, poi apparve una stella a sei punte con la scritta ASSOLUZIONE CONCESSA.
La donna annuì con foga, in segno di approvazione: aveva ottenuto l’assoluzione per un peccato che non aveva commesso, e piuttosto in fretta. Decisa a scoprire i peccati dei fratelli e delle sorelle che avevano vissuto su Grostji, cliccò sull’icona CONFESSIONI PRECEDENTI.
Un nutrito elenco di nomi si materializzò sulla sinistra dello schermo; accanto a ciascuno di essi la scritta in rosso recitava CANCELLATE.
Imhett si diede mentalmente della stupida: il confessore cancellava i peccati dalle anime dei penitenti e poi provvedeva a cancellarle anche dall’apposito file, vincolato dalla stessa segretezza di un sacerdote in carne ed ossa. I nomi dei defunti coloni, però, la incuriosivano: scorse la lista fin quasi alla fine, fermandosi solo quando una riga più lunga delle altre attirò la sua attenzione.
Quissar - fratello  - ULTIMA CONFESSIONE.
Forse il dispositivo di cancellazione si era guastato, o un intoppo aveva impedito che anche quel file venisse secretato, o forse… la donna smise di fare congetture e cliccò sull’icona rossa.
Sul fondo color crema c’era la confessione di Quissar, seguita da una serie di punti esclamativi e da un enorme punto interrogativo.
Perdonami, mio Dio, perché ho peccato contro di te e contro i miei Fratelli. Quando Fratello Lumiren è stato eletto Maggiore di Tutti i Fratelli e le Sorelle l’invidia e l’ambizione si sono impadronite della mia anima tormentata. Ho deciso di eliminare il nuovo Maggiore e tutti coloro che avevano votato per lui introducendo una tossina sintetica nella porzione di campo comune riservata a loro. Se soltanto non fossi stato un chimico, Mio Dio… ora non avrei questo terribile peccato da confessare. Qualcosa è andato storto, e la tossina si è diffusa in tutte le piante coltivate, o forse nel terreno stesso. Ora tutti i miei confratelli sono morti, avvelenati per colpa della mia insana ambizione frustrata, e anch’io sto per morire. Prima che le forze mi abbandonino, invoco il tuo perdono, Padre della Chiesa Universale. Abbi pietà di me a accogli la mia anima nel tuo Santo Regno.
La pagina successiva conteneva due sole parole, in oro, all’interno di un cerchio rosso fuoco.
ASSOLUZIONE NEGATA.

domenica 23 ottobre 2016

IL MONOLITE di Peppe Murro

Alla vista di quel gesto, iniziò a carezzarsi la lunga barba bianca con piena e lenta soddisfazione: era contento, il suo compito era finito ed ora poteva andare via.
Non era stato semplice, ma da quando gli era venuta l'idea del monolite le cose erano lentamente cambiate: quei bipedi erano diventati più sicuri nelle loro scelte come nella loro buffa andatura.
Certo, avevano ancora tratti troppo animaleschi, uccidevano e si accoppiavano in maniera bestiale, con urla e digrignare di zanne, eppure gli sembrava ogni giorno di vedere cambiamenti progressivi.
Ma, notava con qualche cruccio, mancava ancora il gesto definitivo, quello che gli avrebbe dato la certezza che il suo lavoro era finito.
Fino a quel giorno.
Fu allora, infatti, che scorse la novità: la femmina bipede aveva preso una piccola pietra scheggiata come le tante che usavano per tagliare brani di carne o per scuoiare le prede.
La guardò con interesse, poi guardò il maschio che dormiva.
E lentamente, con grande cura, prese a raschiare il suo pube togliendo la lunga peluria fino a scoprire la buffa pelle rosacea.
Capì, a quel gesto, che quella specie si sarebbe evoluta.
Poteva andare, quel mondo si era avviato verso la civiltà.

sabato 22 ottobre 2016

ANOMALIA MAGNETICO-GRAVITAZIONALE di Fabio Calabrese

Come tutte le mattine, il generale Norton entrò a passo spedito nella sala operativa. I piantoni e le ordinanze scattarono sull'attenti. Come al solito, notò che il saluto formale di alcuni non era proprio impeccabile.
Oh, al diavolo. Per decenni, da quando era stato dislocato nel settore mediterraneo, aveva considerato, come del resto i suoi superiori a Washington e la maggior parte dei suoi colleghi, l'Italia e l'esercito italiano il “ventre molle” della NATO, e adesso gli italiani erano gli unici a tenere duro; anzi, l'esercito italiano era l'unico che esistesse ancora. 
I generali Lucero e Frutticini stavano esaminando la carta appesa al muro che raffigurava l'Italia centrale all'incirca dal Po al Tevere, e spostavano spilli e bandierine.
“Ci sono novità?”, chiese.
“Stanotte”, rispose Frutticini, “Una nostra pattuglia di incursori ha distrutto un deposito di carburanti e alcuni mezzi corazzati nemici. Circa un'ora fa quattro starfighter hanno abbattuto un'aeronave nemica in volo all'altezza dell'Isola d'Elba”.
Pareva proprio che quei nemici supertecnologici non fossero in grado di difendersi da qualcosa di tanto elementare come le azioni di pattuglia notturne. Quanto poi al fatto degli starfighter, anni prima avrebbe creduto quegli aerei buoni solo per i musei di storia dell'aviazione.
In quella, entrò il sindaco Bertelli.
Il sindaco di Lucca era la più alta autorità civile italiana rimasta in vita già nelle prime settimane dopo l'invasione e quindi – tecnicamente – fungeva da capo dello stato, presidente del Consiglio e il-diavolo-sa-che-cosa.
A Norton dava sui nervi.
Quando era stato chiaro che la Terra era oggetto di un'invasione extraterrestre, c'era voluto poco a dimenticare tutte le vecchie questioni e ad andare d'accordo con tutti gli antichi nemici umani, compresi la Corea del nord e l'Iran, almeno per il breve periodo in cui erano ancora esistiti dei governi terrestri. Bertelli, però era stato eletto sotto il simbolo di quello che si chiamava “Partito Democratico”, ma che tutti sapevano essere l'erede di quello che era stato il partito comunista, e che proprio un ex comunista fosse la massima autorità di quella che gli USA avevano sempre considerato una scodinzolante colonia, era qualcosa che Norton non riusciva proprio a mandare giù.
“Good morning, mister president”, lo salutò ironicamente Bertelli facendolo andare ancora più in bestia. Anche questo tecnicamente era vero. Per quel che valeva, il generale Norton era la più alta autorità americana rimasta in vita, e aveva una giurisdizione assoluta su quel migliaio di americani, combattenti o rifugiati, sparsi tra Pisa, Lucca e Firenze.
Da circa tre anni il territorio degli Stati Uniti, la patria della libertà, dalle Montagne Rocciose alle pianure del Texas, alle coste della California, non era che una provincia del protettorato arturiano sul pianeta Terra.
Forse al generale Norton avrebbe giovato sapere che, alcune centinaia di chilometri più a nord, nel Quartier Generale Avanzato di Bologna l'umore del Generale d'Armata Spaziale Lkw Kysmhttpl, comandante della forza d'invasione arturiana, non era certo migliore del suo. Da Arturo IV gli erano arrivate disposizioni precisa e doveva prendere entro ventiquattro ore (tempo terrestre) una decisione che sapeva sarebbe stata comunque spiacevole.
“Ma perché”, propose Nmks Wktthll, suo aiutante di campo, “Non saturiamo semplicemente la zona di bombe all'idrogeno e chi si è visto si è visto?”
“Già”, rispose Lkw Kysmhttpl, “E come ce le buttiamo?”
Indicò la carta che riproduceva la Toscana settentrionale. Una zona oblunga larga un centinaio di chilometri nel punto più stretto e circa centocinquanta nel punto più ampio era tratteggiata in rosso. Un'area più estesa tutt'attorno era tempestata di puntini rossi come se avesse la varicella.
“Il fatto è che all'interno di questa zona, ogni nostro veicolo aereo cessa di funzionare, missili compresi, e in quest'area circostante circa tripla, si manifestano gravi disturbi gravito-magnetici”.
“E se tentassimo”, propose l'aiutante di campo, “Un attacco terrestre-navale risolutivo?”
“Presto detto! Se ci fossimo trovati in una zona di vasta pianura aperta, avremmo potuto rischiare una mossa del genere anche con la superiorità aerea locale assolutamente in mano al nemico; ma è una specie di triangolo incassato fra gli Appennini e il Tirreno. La zona di superiorità aerea nemica si estende su tutta la fascia costiera fino ad alcune miglia al largo, ed è impossibile tentare uno sbarco. A sud ci sono l'Arno e altri corsi d'acqua, e tutta la zona è collinosa, per niente adatta alle manovre di mezzi corazzati. Come sai, giorni fa sono stato a Livorno e ho ispezionato il fronte meridionale. I terrestri hanno radunato lì tutte le forze corazzate di cui disponevano ancora in questo settore, hanno perfino interrato i carri armati danneggiati come fortini, tanto non avrebbero comunque molto spazio per muoversi: sono una ventina di chilometri in profondità di acciaio e cannoni. Non vedo proprio come potremmo sfondare in breve tempo quella barriera senza superiorità aerea, anche senza contare gli ostacoli naturali.
E noi non siamo equipaggiati per una guerra di logoramento. Abbiamo già sprecato tre anni. Il piano originario e quello di un rapido colpo di mano per impadronirsi di tutto il pianeta. Ci aspettavamo delle difficoltà per occupare le zone impervie: la foresta amazzonica, il Tibet, l'Antartide, ma non in un territorio apparentemente privo di ostacoli naturali molto consistenti, non qui”.
“E allora che si fa?”, chiese  Nmks Wktthll, “Da Arturo vogliono una decisione entro ventiquattro ore”.
Verso le 11,30 ora locale, una postazione avanzata avvistò un'automobile civile scoperta che avanzava verso le linee dell'esercito italiano. A bordo c'erano un civile terrestre che fungeva da autista e quello che aveva l'aspetto di un alto ufficiale arturiano che reggeva fra i tentacoli l'asta di una grande e vistosa bandiera bianca. Furono fatti avvicinare.
Dopo una scrupolosa perquisizione, furono inviati sotto scorta al quartier generale.
Furono accolti personalmente dal generale Norton e dai generali Lucero e Frutticini, infatti era la prima volta che gli Arturiani cercavano di stabilire un contatto diplomatico.
Norton osservò gli elaborati gradi che l'arturiano portava su tutte e quattro le spalle: era certamente un pezzo grosso.
“Bngrn”, disse l'arturiano, “Sn Nmks Wktthll, plnpptnzr rtrn, sn vnt trttr l'rmstz”.
Come tutti gli arturiani, parlava le lingue terrestri così male, che Norton ci mise un po' a capire che stava cercando di parlare in italiano, lingua che neanche lui, d'altronde, conosceva alla perfezione.
Il civile, che evidentemente fungeva anche da interprete, si affrettò a tradurre.
“Dice che è Nmks Wktthll, plenipotenziario arturiano, e che è venuto a trattare l'armistizio”.
Norton si voltò verso i colleghi italiani.
Frutticini disse:
“Digli che non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci”.
“Nn h prlt d rs, m d rmstz”, rispose l'arturiano.
“Rmstz?”, si chiese Norton perplesso.
“Dice che non ha parlato di resa, ma di armistizio”, precisò l'interprete.
“Digli di spiegarsi meglio”, replicò Norton sorpreso.
Alle quattro del pomeriggio i termini dell'armistizio erano stati definiti e firmati, da Nmks Wktthll per le forze armate arturiane,  da Lucero e Frutticini per l'Italia, e dal generale Norton per le forze della NATO italiani esclusi, ammontanti in quel momento a una brigata mista americana, a un battaglione di Panzergrenadiere della Repubblica Federale Tedesca, a due plotoni di paracadutisti inglesi e a un attaché militare turco che da tre anni in qua era il più spaesato di tutti.
Per le sei un aereo dell'aeronautica militare italiana, data l'impossibilità di movimento per i velivoli arturiani, fu mandato a prelevare Lkw Kysmhttpl a Bologna.
La pace fu firmata in tempo per l'ora di cena.
Il trattato, firmato per il governo italiano dal sindaco di Lucca Roberto Bertelli e in rappresentanza del governo arturiano dal generale di armata spaziale Lkw Kysmhttpl, riconosceva la sovranità italiana sulle province di Pisa, Lucca, Prato e Firenze.
Quella sera le file del superstite esercito italiano furono percorse da una salva quasi ininterrotta di scoppi, i botti dei tappi di spumante di bottiglie misteriosamente sopravvissute alle vicende belliche.
Al Quartier Generale non erano passate le dieci che tutti erano sbronzi fradici, compresi gli arturiani su cui l'alcool faceva uno strano effetto.  Nmks Wktthll si era buttato fra i tentacoli di  Lkw Kysmhttpl fra le risate dei terrestri che ebbero una sorpresa: gli arturiani erano ermafroditi, o forse chissà, lo erano quei due che avevano gusti particolari.
“Ll pc ll mcz fr ppl dll glss!”, urlò Norton sollevando il bicchiere in una gustosa imitazione dello strano italiano di  Nmks Wktthll quando i due arturiani si furono appartati per fare le loro cose.
Per un momento si era chiesto che figura avrebbero fatto i terrestri davanti alla Galassia avendo come capo dell'unico governo umano esistente un ex comunista, ma ora si sentiva di un umore in cui trovava simpatici anche gli arturiani e – con uno sforzo – persino Bertelli.
Nei primi tempi della guerra, gli Americani erano riusciti a catturare dei prigionieri, a interrogarli e a sapere qualcosa di più sulle motivazioni dell'attacco arturiano.
Arturo, come tutti i mondi civili della Galassia, faceva parte della Federazione Galattica. I Galattici conoscevano da decenni il pianeta Terra, e da decenni discutevano se i Terrestri erano da considerare degli animali semi-intelligenti o dei selvaggi che forse un giorno sarebbero stati capaci di progredire e amministrarsi da soli. Gli arturiani avevano deciso di troncare le discussioni e di impadronirsi della Terra con un colpo di mano (di tentacolo, in realtà).
Queste notizie erano state tenute segrete, ma ora che la fine della guerra aveva sancito la fine degli Stati Uniti come entità politica, Norton pensava di poter dire quel che sapeva.
Ora si aprivano prospettive molto interessanti. Una volta che gli arturiani avevano riconosciuto come legittimo il governo umano su una parte sia pure piccola del pianeta Terra, a lungo andare alla Federazione Galattica sarebbe stato impossibile non riconoscere il diritto degli esseri umani ad autogovernarsi. Sarebbero tornati a essere un popolo libero, e inserito nella comunità galattica.
Si alzò in piedi su un tavolo e gridò a gran voce:
“Silenzio, amici, devo fare un'importante dichiarazione!”
Sì, quel giorno la dignità e la libertà umane di fronte all'Universo erano state salvate, e tutto perché per una bizzarra anomalia del campo magnetico terrestre, come aveva scoperto Carlo Lucero anni prima, per un disco volante è impossibile atterrare a Lucca.