lunedì 24 ottobre 2016

ASSOLUZIONE di Teresa Regna

Imhett si agitava nel sonno, senza posa: il suo corpo magro e nervoso si muoveva a scatti, a destra e a sinistra; ad ogni movimento convulso rischiava di cadere dalla cuccetta. L’alto e il basso si confondevano nella sua mente, come se la navetta adibita all’esplorazione non fosse dotata del controllo pressione a 1G; le braccia si tendevano ad afferrare l’aria riscaldata a 20° centigradi, i piedi scalciavano contro il bordo inferiore del ‘loculo’ adibito a cuccetta, la bocca si apriva e si chiudeva come se stesse conversando con un amico invisibile.
La donna stava sognando: ombre incerte e fantasmi evanescenti popolavano il suo incubo. Allungava le mani a cercare di afferrarli, ma si dileguavano prima che le dita potessero stringerli; muoveva le labbra a pronunciare frasi che si disperdevano nell’aria con un suono strozzato, senza riuscire a stabilire un contatto. Si svegliò, di botto, e impiegò qualche secondo a rendersi conto di dove si trovava. Sedette sulla cuccetta incassata nella paratia, rinunciando ad usare le cinghie di contenzione per concedersi un supplemento di sonno sereno. Non sarebbe stato sereno, in ogni caso: il suo cuore batteva più forte di uno scarico a risucchio e il suo respiro era affannoso come se indossasse un antiquato scafandro. Pazienza, si disse, tanto tra un paio d’ore sarò a destinazione.
Visto dalla navetta, il pianeta somigliava alla Terra, con le sue montagne dalla cima aguzza e gli oceani che delineavano le forme quasi geometriche dei continenti. I colori, però, erano singolari: rosa slavato l’erba alta, blu cobalto gli arbusti, viola le acque che serpeggiavano lungo la pianura, scendendo verso il mare in eleganti, sinuose curve, giallo ocra le cime dei monti. Era come se un bambino terrestre avesse deciso di colorare il mondo a modo suo.
Se dovesse nevicare, verrebbero giù dei fiocchi rosso sangue?, si chiese Imhett, mentre indossava la tuta pressurizzata e controllava il casco.  Sulle mappe galattiche veniva specificato che Grostji era stato colonizzato, molti anni prima, ma la composizione dell’atmosfera non la convinceva del tutto: c’erano troppo ozono e poco azoto, per cui aveva deciso che era meglio non correre rischi.
La discesa fu lenta; la navetta si posò sul pianeta dolcemente, come il petalo di un fiore che cade a terra pian piano. La donna indossò il casco, controllò un’ultima volta la scorta di ossigeno, poi si decise a premere il pulsante di apertura del portello principale. Con un sibilo acuto, l’aria uscì dall’apertura esagonale, mentre il portello veniva risucchiato nella parete esterna dello scafo; la scaletta si svolse palmo a palmo, raddrizzandosi man mano che si avvicinava al suolo.
Gettando un’occhiata circolare ad osservare la radura sulla quale aveva fermato il suo mezzo di trasporto, Imhett percorse la scaletta ormai irrigidita nella sua posizione più funzionale. Un sorriso le increspò le labbra sottili quando vide una macchia di fiorellini marrone cupo, che invece delle foglie esibivano una serie di filamenti blu elettrico che si intersecavano fra loro.
“Pianeta interessante”, biascicò la donna. Come tutti gli astronauti abituati a rimanere da soli per lunghi periodi, aveva contratto l’abitudine di parlare, di tanto in tanto, con se stessa.
Lasciò spaziare lo sguardo fino all’orizzonte, delimitato da una macchia di alberi e arbusti dello stesso sconcertante blu scuro, e schioccò le labbra: non si scorgeva nessuna traccia della passata attività umana. Decenni fa, in quel luogo sorgeva un insediamento umano composto da una lunga casa comune suddivisa in appartamenti singoli, un enorme capannone che fungeva da magazzino, dei campi coltivati, e una chiesa ricavata dallo scafo dell’astronave che aveva trasportato i coloni su Grostji.
Imhett aveva studiato le vecchie mappe, sia spaziali che geografiche, visionato i filmati che i coloni avevano inviato nel corso degli anni, letto i rapporti degli esploratori che l’avevano preceduta. Non aveva trovato, però, la chiave che l’aveva condotta fino all’avamposto più estremo della Galassia: la causa dell’estinzione in massa dei coloni.
Le ipotesi erano molteplici, ma nessuna di esse era stata ancora verificata in loco. Gli esploratori si erano limitati a fotografare il pianeta da una distanza di sicurezza, mappando il territorio a mano a mano che la natura si prendeva la rivincita sull’uomo. I campi si erano allagati, le costruzioni prima erano crollate e poi si erano sbriciolate; la vegetazione aveva ripreso possesso, a poco a poco, del sito in cui sorgeva l’insediamento, mentre una specie mutante di batteri danneggiava irreparabilmente lo scafo, facendolo sprofondare nel terreno.
La donna era lì per scoprire la causa della distruzione della colonia. Si rifiutava di ripercorrere, con la mente, le ipotesi degli scienziati, quelle dei costruttori dell’astronave e dei finanziatori della spedizione: voleva trovare da sé la soluzione di quell’enigma.
Doveva cominciare a darsi da fare per disseppellire qualche resto della colonia annientata: era sicura che non tutto il materiale era sbriciolato o completamente distrutto. Se i suoi calcoli erano esatti, avrebbe trovato almeno un frammento di scafo, un mattone, una suppellettile, un osso umano, insomma qualcosa che ogni archeologo degno di questo appellativo avrebbe ripulito, catalogato e inventariato.
Disponeva di un’autonomia di due ore d’ossigeno e di tutti gli attrezzi che le occorrevano. Cominciò a scavare nell’area in cui, secondo le informazioni in suo possesso, una volta si ergeva la casa comune, un complesso rettangolare molto lungo e piuttosto stretto, costruito in mattoni di argilla cotti al forno. Dopo aver spalato terriccio ed erba per una buona mezz’ora, trovò il primo reperto: un piatto sbreccato, di ceramica non decorata. Incoraggiata da quel ritrovamento, continuò il suo lavoro con maggiore lena.
Quando la provvista di ossigeno si esaurì, costringendola a rientrare nella navetta, aveva collezionato alcune suppellettili, nessuna delle quali intatta, e una minuscola statuina di creta raffigurante un essere alato. Dispose i reperti su un ripiano, nella cabina, ed esalò un sospiro: potevano dirle qualcosa della vita quotidiana della colonia, ma non rispondevano certo alla domanda cruciale. Aveva ancora circa tre ore di luce da sfruttare, per cui si rifornì di ossigeno e riprese a scavare. All’imbrunire la sua collezione si era arricchita di un paio di bicchieri e alcuni attrezzi agricoli, però non era affatto più vicina alla soluzione dell’enigma.
Il giorno successivo, Imhett portò avanti l’attività di scavo dall’alba fino notte inoltrata, con pause di pochi minuti per rifocillarsi e trasportare i reperti nella navetta. Dopo un’ora di lavoro, decise di liberarsi dell’ingombrante tuta e dello scomodo casco, rischiando di respirare un’atmosfera non ottimale per poter scavare con maggiore velocità. Sentire l’aria fresca sul viso la rese tanto euforica che cominciò a chiacchierare da sola, ridendo per qualunque sciocchezza. Ammutolì soltanto quando trovò le prime ossa, completamente scarnificate e imbiancate dagli agenti atmosferici: le posò sulla piccola porzione di terreno brullo intorno alla navetta, decisa a ricostruire almeno un intero scheletro, poi si rimise al lavoro.
La scoperta determinante avvenne poco prima che la donna decidesse che era giunto il momento di riposare per la notte: un rettangolo di plastica spuntò sotto la lunga radice di un piccolo arbusto viola. Imhett cominciò a scavare con le mani per non danneggiare il prezioso reperto, all’apparenza intatto e sicuramente di fattura terrestre, e portò alla luce del crepuscolo imminente la tastiera di un antiquato computer, risalente all’epoca in cui i comandi vocali non erano stati ancora perfezionati. Quasi un’ora dopo, trovò il CPU, e dopo un paio d’ore e uno scavo circolare dal raggio più ampio di un metro, anche il monitor. Il cavo di alimentazione sembrava intatto, e la batteria all’iridio aveva tutta l’aria di essere ancora funzionante.
Trasportò i preziosi reperti sulla navetta, e consultò gli appunti: la batteria era stata costruita per durare oltre un secolo, e tutti i componenti del computer erano, nel periodo della colonizzazione, all’avanguardia. Mettendolo in funzione, forse avrebbe ottenuto qualche risposta interessante, ma era troppo stanca per farlo in quel momento. Sbadigliando senza ritegno, si sdraiò sulla cuccetta e piombò in un sonno senza sogni.
Il mattino seguente, a mente lucida, Imhett cominciò ad esaminare con maggiore attenzione il computer che era rimasto sepolto per quasi un secolo. Sotto alla tastiera era inciso uno strano disegno: due mani unite in una stretta sormontate dal disco solare, mentre dietro il CPU c’era un’altra incisione, una scritta che recitava ‘proprietà privata dei Fratelli della Chiesa Universale’. Batté la mano sulla fronte alta, e scoppiò in una risata argentina: nella foga della ricerca aveva quasi dimenticato che la città i cui reperti stava portando alla luce era stata fondata da una comunità religiosa.
I Fratelli della Chiesa Universale erano una via di mezzo tra intransigenti cristiani della prima ora e puritani inglesi del millennio precedente. Ritenevano il lavoro una forma di purificazione, pregavano almeno sei volte al giorno, si sposavano soltanto all’interno della loro cerchia ristretta e, naturalmente, credevano di essere i depositari della Sola e Unica Verità. “Proprio come tutti i fondamentalisti”, commentò.
Collegò gli spinotti nei rispettivi alloggiamenti, schioccando la lingua con impazienza, poi accese il computer. Una scritta in giallo oro campeggiò al centro esatto del monitor: CONFESSORE AUTOMATICO INSERITO. Incuriosita, pigiò il pulsante ENTER.
Benvenuta, sorella – benvenuto, fratello. Digita il tuo nome e il tuo sesso.
SONO UNA DONNA. MI CHIAMO IMHETT.
Digita i peccati che hai commesso, sorella.
Imhett rimase un attimo pensierosa, poi improvvisò. SONO STATA EGOISTA.
Dividi il tuo cibo con i fratelli a te più vicini, prega molto e cerca di non peccare più. Lo schermo si riempì di quadratini rosa pallido intersecati da linee bianche, poi apparve una stella a sei punte con la scritta ASSOLUZIONE CONCESSA.
La donna annuì con foga, in segno di approvazione: aveva ottenuto l’assoluzione per un peccato che non aveva commesso, e piuttosto in fretta. Decisa a scoprire i peccati dei fratelli e delle sorelle che avevano vissuto su Grostji, cliccò sull’icona CONFESSIONI PRECEDENTI.
Un nutrito elenco di nomi si materializzò sulla sinistra dello schermo; accanto a ciascuno di essi la scritta in rosso recitava CANCELLATE.
Imhett si diede mentalmente della stupida: il confessore cancellava i peccati dalle anime dei penitenti e poi provvedeva a cancellarle anche dall’apposito file, vincolato dalla stessa segretezza di un sacerdote in carne ed ossa. I nomi dei defunti coloni, però, la incuriosivano: scorse la lista fin quasi alla fine, fermandosi solo quando una riga più lunga delle altre attirò la sua attenzione.
Quissar - fratello  - ULTIMA CONFESSIONE.
Forse il dispositivo di cancellazione si era guastato, o un intoppo aveva impedito che anche quel file venisse secretato, o forse… la donna smise di fare congetture e cliccò sull’icona rossa.
Sul fondo color crema c’era la confessione di Quissar, seguita da una serie di punti esclamativi e da un enorme punto interrogativo.
Perdonami, mio Dio, perché ho peccato contro di te e contro i miei Fratelli. Quando Fratello Lumiren è stato eletto Maggiore di Tutti i Fratelli e le Sorelle l’invidia e l’ambizione si sono impadronite della mia anima tormentata. Ho deciso di eliminare il nuovo Maggiore e tutti coloro che avevano votato per lui introducendo una tossina sintetica nella porzione di campo comune riservata a loro. Se soltanto non fossi stato un chimico, Mio Dio… ora non avrei questo terribile peccato da confessare. Qualcosa è andato storto, e la tossina si è diffusa in tutte le piante coltivate, o forse nel terreno stesso. Ora tutti i miei confratelli sono morti, avvelenati per colpa della mia insana ambizione frustrata, e anch’io sto per morire. Prima che le forze mi abbandonino, invoco il tuo perdono, Padre della Chiesa Universale. Abbi pietà di me a accogli la mia anima nel tuo Santo Regno.
La pagina successiva conteneva due sole parole, in oro, all’interno di un cerchio rosso fuoco.
ASSOLUZIONE NEGATA.

1 commento:

  1. Avvincente e ben scritto il racconto di Teresa. Anche a lei diciamo: benvenuta sulle pagine di ASIMOV.

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