martedì 10 gennaio 2017

IL COLORE DEL CIELO di Teresa Regna

But the fool on the hill
sees the sun going down
and the eyes in his head
see the world spinning round.

Paul McCartney

 
Si chiamava Josh, ma per tutti era semplicemente ‘lo scemo’. Viveva da solo, in una casa sulla collina. E possedeva il colore del cielo. Quello autentico, non quello che veniva erogato dalla cupola che imprigionava il villaggio, isolandolo dal resto del mondo.
Gli altri vedevano le stagioni simulate, l’alternarsi senza fine di giorni e notti di uguale durata, lo splendore del sole o le nubi cariche di pioggia, a seconda delle necessità del raccolto e della comunità. Lui, lo scemo del villaggio, poteva godere lo spettacolo del colore del cielo, di quel cielo che sovrastava la cupola, che giganteggiava su una terra ammalata per colpa della follia dell’umanità. Il vero cielo, col suo vero colore.
“’Giorno”, biascicò, mentre insinuava la sua notevole mole oltre la porta a vetri dell’emporio.
Due donne erano intente ad osservare la mercanzia, mentre dietro il banco troneggiava la padrona del negozio, un donnone più largo che alto. Nessuna di esse si curò di rispondere al saluto del giovane.
Attese che le clienti che lo precedevano terminassero i loro acquisti, poi si avvicinò al banco con la sua andatura ciondolante, indolente come i pensieri che gli attraversavano la mente. “Vorrei del sale”, dichiarò.
“È razionato”, gli fece notare, in tono sgarbato, la proprietaria dell’emporio. Le mani sui fianchi, lo fissava con l’espressione che si assume, di solito, con gli insetti molesti: un misto di disgusto, repulsione, e fascinazione per l’orrido.
“Lo so”, sillabò, lentamente, Josh. “Mi occorre lo stesso. Per cucinare”.
La donna prelevò un pacchetto di carta bianca, lo posò sulla bilancia vecchio stile, grugnì qualcosa di inintelligibile, e ne tolse un cucchiaino. Infine, porse l’involto al giovane che la fronteggiava, storcendo il labbro con disapprovazione. Se fosse stata lei a scrivere le leggi che governavano il villaggio, avrebbe gettato quel rifiuto umano fuori dalla cupola, nell’atmosfera carica di veleni radioattivi, sotto il vero cielo il cui simulacro ostentava come un trofeo. Era soltanto un peso morto, un inutile, stupido mangiapane a ufo, che consumava le razioni che sarebbe stato più proficuo destinare a un distinto padre di famiglia.
Josh gettò la moneta che serviva a pagare il sale sul banco, esprimendo con quel gesto lo stesso disprezzo di cui era fatto oggetto dalla proprietaria del negozio. Il tintinnio venne fermato dalla mano aperta della donna, nello stesso istante in cui il cliente indesiderato imboccava l’uscita.
Anche se era consapevole di non essere molto intelligente, il giovane non era stupido come tutti i suoi compaesani credevano: la sua mente faticava a comprendere alcuni concetti, e il suo corpo faticava a mettersi in moto. A volte, la mente e il corpo non riuscivano ad andare daccordo, per cui movimenti o pensieri inconsulti lo lasciavano interdetto, incapace di spiegarsene la ragione. Però sapeva alcune cose che gli altri ignoravano, e studiava il colore del cielo per imparare a riconoscerlo in ogni momento della giornata.
Leggeva molto. Con calma, un paragrafo al giorno, cercava di imparare quanto più poteva dai libri lasciatigli in eredità dai genitori. Insieme al colore del cielo e alla casa sulla collina. Erano due scienziati, molto intelligenti e altrettanto buoni. Gli avevano spiegato che la sua lentezza era causata da una malattia, incurabile, che l’aveva colpito da bambino. Peccato che fossero morti entrambi durante la prima fase della guerra: gli mancavano molto.
Era sempre solo, Josh. O per la maggior parte del tempo. Leggeva, contemplava il cielo, parlava con gli animali. Possedeva due gatti e un cane: i suoi unici amici. Non li aveva mai legati, come facevano tutti per evitare che i loro animali scappassero, né aveva mai pensato di cibarsene, come facevano alcuni quando la carestia arrivava a flagellare il villaggio. Avrebbe preferito morire di fame, piuttosto.
“Dog!”, chiamò, indirizzando la voce possente verso l’unico boschetto ancora intatto, situato non lontano dalla sua casa. Un pastore tedesco più basso del normale arrivò, di corsa, e sedette sull’erba rada, di fronte al giovane. “Bravo”, lo lodò, accarezzando la testa morbida, e fissando lo sguardo negli occhi intelligenti dal cane. Sedette sulla vecchia panca che aveva recuperato da un cassonetto, e pose sulle ginocchia una sorta di specchio dallo spessore sottilissimo.
“Fammi compagnia mentre guardo il colore del cielo”, disse. Inclinò l’oggetto in modo che la luce del sole artificiale potesse colpirlo, e premette un piccolo pulsante posto sul bordo. Sulla superficie liscia cominciò a formarsi un’immagine: nuvole rosate, che si rincorrevano lungo una via celeste cupo, attraversate da alcuni raggi di luce violetta.
 “Lì fuori è il tramonto”, spiegò Josh. Il cane emise un sibilo prolungato, come se avesse capito l’affermazione del suo padrone. Un lampo di luce più intensa degli altri si propagò lungo l’immagine del cielo, mentre la notte scendeva ad ammantare la terra. “È bellissimo!”, esclamò il giovane. “Cat, Cattie, venite a vedere anche voi”, chiamò a raccolta i gatti. Un maschio dal pelo multicolore e una femmina tigrata, arancione con la gola bianca, accorsero al suo richiamo. Erano abituati a quel rituale, pertanto salirono sulla panca e allungarono i loro musi fino a sfiorare il portentoso oggetto.
“È ora di preparare la cena”, soggiunse, dopo un po’. Spinse ancora una volta il pulsante seminascosto, e l’immagine del cielo scomparve: la superficie divenne translucida come un comune pezzo di vetro. “Forse pioverà”, borbottò tra sé, mentre rientrava in casa. “Pioggia acida, ma vera”.
Qualche giorno più tardi, mentre il sole artificiale splendeva alto nel cielo della cupola, Josh prese il suo oggetto preferito, e sedette sulla panca, immobile e guardingo. Temeva sempre che qualcuno tentasse di rubarglielo, pertanto lo custodiva come il più caro dei tesori.
Appena lo schermo ultrapiatto venne acceso, il giovane capì che qualcosa non andava per il verso giusto: alcuni puntini scuri attraversavano la coltre di nuvole grigie che ricopriva il cielo. Piccoli oggetti neri che entravano e uscivano dalla nubi, come se fossero impegnati in un colossale torneo di nascondino.
D’improvviso, sia il cielo vero sullo schermo che quello finto che sovrastava la collina cominciarono a roteare vorticosamente. La terra oggi gira più in fretta del solito, pensò Josh per una frazione di secondo. Poi altri pensieri gli affollarono la mente, turbinando come volatili impazziti. E seppe cosa stava per accadere.
Abbandonò la sua eredità sulla panca, incustodita, e corse a perdifiato verso il villaggio. L’aria entrava e usciva dai suoi polmoni a velocità spaventosa, e le sue gambe si muovevano tanto in fretta che gli pareva di avere delle ruote al posto dei piedi.
“Siamo in pericolo”, urlò, concentrando il poco fiato che ancora gli rimaneva in due sole frasi. “Ci attaccano”. Si fermò, ansimando come se avesse appena concluso la maratona, nella piazza principale del villaggio. Non era abituato a correre, e dovette attendere che il cuore smettesse di battere all’impazzata prima di poter ripetere l’avvertimento al gruppetto di persone che chiacchieravano del più e del meno, inconsapevoli del pericolo mortale che incombeva su di loro. “Dovete chiamare il sindaco”, esalò, quasi senza fiato. “Bisogna attivare lo scudo”.
Alcuni sguardi perplessi, insieme ad altri indifferenti, si posarono su di lui. Nessuno era disposto a prestar fede alle sue parole.
“La cupola è il nostro scudo”, affermò una donna anziana, puntando verso l’alto il dito teso.
“Non serve a nulla contro un attacco aereo”, le fece notare Josh. “Dobbiamo attivare lo scudo spaziale”.

“La guerra è finita da un pezzo”, commentò un uomo poco più vecchio di lui. “Che sciocchezze cerchi di propinarci?”.
Il giovane morse le labbra per non rispondergli a tono, incamminandosi subito dopo verso la casa del sindaco. L’uomo, basso e quasi completamente pelato, era intento a zappare il suo orticello, e non interruppe il lavoro nemmeno per un istante.
“Stiamo per essere attaccati”, lo avvertì Josh. “Ho visto gli aerei sul mio schermo”.
“Li avrai sognati, ragazzo”, borbottò il sindaco.
“Soltanto io posso vedere cosa succede al di sopra della cupola”, incalzò il giovane. Non intendeva arrendersi di fronte all’indifferenza dei compaesani, ma non sapeva come far capire all’interlocutore che diceva la verità.
“Lo so, possiedi il colore del cielo”, lo canzonò l’uomo, mentre continuava a dissodare il terreno con gesti misurati e precisi.
“Mio padre....”, riprese Josh.
Venne interrotto dal tono seccato del sindaco. “Era un grande scienziato. Invece tu sei uno scemo ancora più grande”.
Ferito da quell’insulto gratuito, il giovane girò sui tacchi. “Volevo solo essere d’aiuto”, sbottò, prima di andarsene. “Ma voi meritate quello che sta per succedere. Tutti!”.
Percorse la strada che conduceva alla collina a passo svelto, ma senza correre: non si deve aver fretta quando si è in procinto di affrontare l’inevitabile. Arrivato a casa, recuperò il suo tesoro dalla panca sulla quale l’aveva lasciato, e chiamò gli animali. “Dog, Cat, Cattie, andiamo a rifugiarci in cantina”, ordinò, in tono perentorio. “Chissà se servirà a qualcosa”, aggiunse, a mezza voce.
Lo schermo che mostrava il colore del cielo era rimasto acceso; Josh gli diede un’ultima occhiata prima di entrare in casa, seguito a ruota dal cane e dai gatti. Una pioggia piuttosto intensa inondava la terra, mentre le sagome degli aerei nemici divenivano sempre più chiare, grosse e minacciose. Oltre alla terra, anche il cielo era malato, rifletté il giovane.
Sceso in cantina, si accucciò sotto un vecchio tavolo che occupava quasi per intero una parete, e abbracciò Dog, in attesa dell’esplosione che avrebbe distrutto la cupola. Cat e Cattie si sistemarono accanto alle gambe del tavolo, uno per ciascun lato, come due sentinelle pronte a difendere il loro territorio dall’invasione. Quando il primo boato squarciò il silenzio, però, anche i gatti si avvicinarono al padrone, in cerca di conforto.
“State buoni, tutti e tre”, intimò Josh. “Presto sarà tutto finito, in un modo o nell’altro”. Osservò con la coda dell’occhio lo schermo che aveva deposto accanto a sé: nonostante fosse ancora acceso, era buio come una notte senza stelle. Nemmeno il suo oggetto preferito voleva vedere il colore del cielo, in quel momento.
La seconda esplosione fu seguita da un rumore di vetri infranti e di mobilia che precipita. La terza non venne udita dal giovane: il tavolo sotto il quale aveva cercato rifugio era caduto, colpendolo alla testa. Quando riprese i sensi, un silenzio irreale lo circondava. E tre lingue raspose lo leccavano sul volto sporco di polvere.
Si rialzò a fatica, tastando la ferita dalla quale il sangue continuava a sgorgare. Dog gli leccò una mano, con dolcezza. “Sei un bravo infermiere”, gli sussurrò. “Ma ora che ce l’abbiamo fatta devo trovare un pezzo di stoffa per fasciarmi la testa”.
La porta della cantina era bloccata: qualcosa di molto pesante impediva a Josh di aprirla. Provò a sfondarla con un calcio, ma non ottenne nessun risultato, quindi afferrò una corta asta di ferro che giaceva in un angolo e si gettò contro la porta con tutto il suo peso. Uno spiraglio si aprì, e i gatti si precipitarono attraverso di esso. Facendo leva a poco a poco con l’asta, riuscì ad ingrandire lo spiraglio fino al punto da poter passare al di là della porta. Dog lo seguì, guaendo tutta la sua disperazione. Un fazzoletto sporco, prelevato da quello che fino a pochi attimi prima era stato un cassetto, venne legato sulla fronte, a mo’ di fasciatura.

La casa era a pezzi: il tetto era crollato, e i suoi resti erano sparsi dappertutto, le mura esterne erano alte soltanto un paio di palmi, mentre quelle interne non esistevano più, polverizzate dall’esplosione. I mobili erano ridotti ad un cumulo di rottami inservibili, e dei soprammobili non esisteva un frammento più grande di un’unghia.
Josh cominciò a percorrere ciò che rimaneva della sua casa, e si rese conto che soltanto il letto era quasi intatto, poiché l’armadio che si trovava alla sua sinistra era stato catapultato all’esterno, nel punto in cui prima c’era la finestra. La libreria era crollata, e i libri che il giovane tanto amava giacevano scomposti sul pavimento, ricoperti dai resti dei mobili e dalla polvere che si era posata sopra ogni cosa.
La scena apocalittica, che avrebbe sconvolto chiunque, non impressionò poi molto Josh. “Porterò il letto in cantina”, annunciò agli animali, che annusavano qui è là, apparentemente più spaesati del padrone. “D’ora in poi, abiteremo di sotto”.
Appena ebbe pronunciato questa frase, scese a precipizio le scale che portavano in cantina: in preda alla preoccupazione per la propria incolumità, aveva dimenticato di portare con sé lo schermo, e persino di controllare se era ancora in grado di funzionare. Premette freneticamente il pulsante di accensione, più volte, ma l’oggetto rimase nero: anche il suo tesoro era stato danneggiato dall’esplosione.
Presto, molto presto, gli effetti della radioattività si sarebbero fatti sentire. Dopo, la morte l’avrebbe ghermito, permettendogli di ricongiungersi alla madre e al padre. Josh lo sapeva, ma non aveva intenzione di disperarsi per questo: non c’era nulla che potesse fare per rimediare al disastro, o per salvarsi. Accettava il suo destino, senza recriminare o piangerci su. La guerra era proprio finita, ora. Almeno per lui.
Una pioggia sottile cadeva dal cielo. Pioggia acida, ma vera. Posò a terra lo strumento che gli aveva allietato i tanti mesi trascorsi dalla morte dei genitori, e si rivolse agli animali, che continuavano ad aggirarsi, sconsolati, tra le macerie della casa. “Tra qualche giorno moriremo”, affermò, con il tono lento e solenne di chi sta annunciando un evento ineluttabile. “Però staremo insieme, fino alla fine”.
Sollevò gli occhi verso il blu cupo che lo sovrastava, aggiungendo “E fino a quel giorno possiederemo ancora il colore del cielo”. Mentre gratificava di una carezza fugace Dog, Cat e Cattie, concluse “Soltanto noi, in tutta la terra”.

 

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